a cura di Simona Lancioni
Non si può non rimanerne affascinati. La sua pittura è simbolica e realistica insieme, esprime il dolore di un corpo devastato (dalla malattia prima, da un incidente poi), ma anche la voglia di vivere di chi la vita la ama appassionatamente. Frida Kahlo (1907-1954) è stata una delle più grandi pittrici del ‘900.
La vita
Non si può comprendere l’opera di quest’artista senza conoscere la sua vita. Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón – questo il suo nome completo – diceva di essere nata nel 1910, mentre in realtà era nata a Coyoacán (Città del Messico) il 6 luglio 1907. Non voleva mentire sull’età. Piuttosto amava considerarsi una figlia della rivoluzione messicana che, appunto, iniziò nel 1910 e terminò nel 1917 con la promulgazione ufficiale di una nuova costituzione, e trovò in Pancho Villa ed Emiliano Zapata i suoi eroi popolari.
Era figlia di Carl Wilhelm (Guillermo) Kahlo, un tedesco luterano, introverso ed epilettico, emigrato in Messico all’età di diciannove anni, e della sua seconda moglie, Matilde Calderón y Gonzalez, una donna messicana (figlia di una donna spagnola e di un indio). Guillermo divenne un fotografo professionista ed influenzò profondamente la personalità artistica della figlia insegnandole a ritoccare col pennello le fotografie e a coltivare la tecnica dell’inquadratura fotografica. Una tecnica che Frida utilizzò per realizzare molti dei suoi dipinti.
Nel 1913, a sei anni, Frida si ammalò di poliomielite riportando danni irreversibili alla gamba destra. Nonostante lei stessa attribuisse a questo evento l’origine dei suoi mali, in realtà pare che sin dalla nascita fosse affetta da spina bifida. Una malattia che l’aveva portata a camminare tardi e le aveva arrestato lo sviluppo della gamba destra. Una scoliosi le procurava dolori continui e i rilevanti problemi circolatori la portarono prima all’amputazione delle dita dei piedi, e più tardi, nel 1953, a quella della gamba destra.
Il 17 settembre 1925 (a diciotto anni) Frida rimase vittima di uno spaventoso incidente nel quale restò gravemente ferita. Mentre viaggiava su un autobus di legno col suo primo fidanzato, Alejandro Gomez Arias, ci fu uno scontro con un tram. Riportò diverse fratture alla colonna vertebrale, al bacino e al piede destro. Un tubo di metallo le trapassò il ventre. Trascorse un lungo periodo in ospedale sospesa tra la vita e la morte. I postumi dell’incidente si fecero sentire per il resto della vita costringendola a numerosi interventi chirurgici. Durante il lungo periodo di riposo a letto a cui fu costretta iniziò a dipingere e divenne simpatizzante del Partito comunista messicano (al quale si iscrisse nel 1928).
Nel 1929 si sposò con Diego Rivera, uno dei grandi maestri del muralismo messicano. Lei aveva ventidue anni, lui quarantadue e il loro rapporto durò venticinque anni, fino alla morte di lei (con la pausa di un anno di divorzio tra il 1939 e il 1940). La loro storia d’amore fu molto tormentata e burrascosa a causa della continua infedeltà di lui (che riuscì a tradirla anche con Cristina, una delle sorelle di lei). Frida inizialmente subì, poi iniziò a tradirlo a propria volta sia con uomini, che con donne. Eppure, nonostante tutto, Diego Rivera rimase per Frida il grande amore della sua vita. Con lui condivise la passione per l’arte, l’orientamento politico e un affetto reciproco capace di persistere anche nei momenti più critici del loro rapporto. Scriverà nel suo diario:
«Diego. inizio
Diego. costruttore
Diego. mio fidanzato
Diego. mio ragazzo
Diego. pittore
Diego. mio amante
Diego. “mio marito”
Diego. mio amico
Diego. mia madre
Diego. io
Diego. Universo
Diversità nell’unità
Perché lo chiamo il Mio Diego? Non è mai stato e non sarà mai mio. Diego appartiene a se stesso.»
Nel 1930, a ventitre anni, iniziò con il marito una serie di soggiorni negli Stati Uniti. Soggiorni sofferti perché lei non amava lasciare la terra in cui era nata e alla quale si sentiva molto legata. Tra il 1930 e il 1934 ebbe tre aborti, secondo alcune fonti spontanei, secondo altre terapeutici. Nel 1938 (a trentuno anni) fece la sua prima mostra personale a New York. Nel 1939 divorziò dal marito (col quale si risposerà l’anno seguente) e dipinse uno dei suoi quadri più famosi «Le due Frida».
Se la sua vita ci appare scandita da eventi dolorosi, e se proprio questi ultimi trovano un visibile riscontro nella sua produzione artistica, chi conobbe personalmente Frida Kahlo l’ha descritta come una persona piena di vita, una sorta di emblema dell’allegria, intelligente e ironica, attenta alla bellezza (si pensi, ad esempio, agli abiti da tehuana che vestiva, ai vistosi gioielli che indossava, alle sue importanti e stravaganti acconciature), irruenta, talvolta anche violenta, passionale, gelosa, sempre pronta a organizzare feste per gli amici, consumatrice di alcol, sigarette e droga. Nell’osservare le sue opere e nel leggere di lei si ha la costante impressione di una dualità tra la storia e la leggenda (che lei stessa, sapientemente, contribuì a costruire), tra la vita e la sua rappresentazione, tra il femminile e il maschile (in gioventù usò spesso abiti maschili), tra il dolore e l’alegrìa, tra la fragilità e la forza, tra la ricerca d’amore e i pensieri di morte.
L’arte
Alla fine della sanguinosa rivoluzione (1917) il Messico dovette affrontare diversi problemi di carattere politico, sociale, economico e culturale. Davanti a una popolazione quasi analfabeta si sentì l’esigenza di investire in educazione e cultura. Nacque in questo contesto il movimento muralista della Scuola messicana di pittura: su commissione del governo molti artisti iniziarono a decorare i muri con murali che avevano il compito di raccontare con immagini il singolare momento storico. Molti di questi artisti si spinsero oltre le intenzioni della committenza, e utilizzarono le proprie opere anche come strumento di denuncia sociale: venne rappresentata la lotta tra le classi sociali, lo sfruttamento dei minatori e dei braccianti, l’oppressione esercitata da alcuni organi ecclesiastici. Rispetto a questo orientamento l’arte di Frida Kahlo si pone in controtendenza. Se il murale si caratterizzava per grandezza, lei predilesse le piccole opere (la misura media era di trenta per trentasette centimetri), la cura del dettaglio e del particolare, la ricerca di intimità. Laddove i muri si vestivano di temi storici e sociali, lei, incamminandosi su una strada egocentrica e narcisista, si risolveva a dipingere la sua realtà personale. Nonostante il forte legame col suo Paese – dimostrato anche dal fatto che spesso si dipinse vestita con sgargianti abiti messicani –, i protagonisti della maggior parte delle sue opere furono, quasi in modo ossessivo, se stessa e i suoi vissuti.
Per questi motivi non deve sorprendere se la gran parte dei circa duecento dipinti realizzati nella sua carriera artistica furono autoritratti. Lei stessa spiegò i motivi di questa scelta: «dipingo autoritratti perché sono spesso sola, perché sono la persona che conosco meglio». La sua opera può essere definita come una sorta di autobiografia pittorica. Usò la pittura per raccontare le sue sensazioni, i suoi sentimenti e i suoi stati d’animo. Rappresentò i momenti significativi della sua vita. La sua nascita, l’allattamento, gli aborti, i dolori che i suoi problemi di salute le provocavano, la sua famiglia, il suo rapporto col marito Diego Rivera, la paura della morte, il suo legame col proprio Paese e con l’ideologia comunista, e molti altri ancora. Creò un linguaggio figurativo talvolta semplicemente realistico, altre volte arricchito da elementi simbolici, surreali e fantastici, senza tuttavia staccarsi mai completamente dalla realtà, per questo motivo, anche se alcuni sostengono il contrario, le sue opere non possono propriamente essere definite surrealiste [1]. A tal proposito affermò: «pensavano che anche io fossi una surrealista, ma non lo sono mai stata. Ho sempre dipinto la mia realtà, non i miei sogni.»
L’opera «Ospedale Henry Ford» o «Il letto volante» (1932) esprime in modo emblematico la commistione tra elementi simbolici e reali. Nel quadro Frida si rappresenta dopo un aborto, distesa su un letto d’ospedale sospeso in aria, col viso solcato di lacrime, nuda e sanguinante, con il ventre ancora rigonfio per la gravidanza sostenuta. Sullo sfondo un paesaggio industriale desolato, quello di Detroit (luogo del doloroso evento). Attorno al letto, sei elementi simbolici, disposti in modo simmetrico, anch’essi (come il letto) sospesi in aria e collegati alla mano di Frida da cordoni rossi simili a vene. Questi gli elementi: due raffigurazioni del bacino lesionato nell’incidente sull’autobus, il feto appena perduto, una lumaca (secondo alcuni simbolo della lentezza dell’aborto, secondo altri, come nelle culture indie, simbolo del concepimento), un macchinario dell’ospedale, e un’orchidea (simbolo del sentimento, ma anche il fiore che Diego le portò in occasione del ricovero).
Il ricorso al simbolico è presente anche nell’opera «La mia balia e io» (1937). La madre non poté allattare Frida perché dopo la sua nascita rimase subito di nuovo incinta. Per questo motivo Frida venne allattata da una nutrice. Nel dipinto Frida si rappresenta con il corpo da bambina ed il viso da adulta. La balia india, dal canto suo, ha una maschera sul volto. I due personaggi non si guardano. Se ne ricava l’impressione di una relazione fredda e distante. Il quadro simboleggia l’origine meticcia di Frida. Alcuni vedono in esso la rappresentazione del rapporto ambivalente che l’artista ebbe con la propria madre. Altri vogliono vedere anche in questo quadro l’espressione della dualità di Frida: un autoritratto doppio in cui la Frida balia nutre se stessa (la maschera sul volto della balia ha le sopraciglia simili a quelle di Frida).
«Le due Frida» (1939) esprimono il dolore per il divorzio da suo marito. In quest’opera la dualità che caratterizza la sua persona è ancora più esplicita: Frida si rappresenta due volte. C’è la Frida lasciata da Rivera, vestita con un abito bianco macchiato di sangue, con in mano una pinza emostatica anch’essa sanguinante. E c’è la Frida amata da Rivera, vestita con abiti messicani colorati, che tiene in mano un piccolo medaglione raffigurante Diego bambino. Le due Frida non si guardano, ma si tengono per mano e sono sedute sulla stessa panchina, hanno entrambe il cuore esposto (dipinto con dovizia di particolari anatomici), e sono legate da una vena che collega il cuore sano (quello della Frida amata) al cuore malato (quello della Frida lasciata). Questa rappresentazione del cuore richiama e ricorda alcune immagini religiose delle chiese messicane.
Un altro elemento che sembra riconducibile all’iconografia religiosa è la corona di spine, con la differenza che mentre nelle rappresentazioni sacre la corona cinge la testa della persona, negli autoritratti dell’artista essa diventa una collana che cinge il collo e provoca ferite sanguinanti. Queste ferite suscitano una sensazione di angoscia che tuttavia non trova un corrispettivo nello sguardo di Frida che continua a guardare impassibile davanti a sé. Si rappresenta così nell’«Autoritratto con collana di spine e colibrì» (1940).
Il tema del dolore e del corpo segnato dalla disabilità è abbastanza ricorrente nelle sue opere. Da questo punto di vista «La colonna spezzata» (1944) è una delle più eloquenti. In essa il tronco di Frida è imprigionato in un busto d’acciaio che ne impedisce i movimenti e che al contempo lo tiene insieme. Dal collo in giù parte uno squarcio che lascia intravedere una colonna classica, spezzata in più punti, che sostituisce simbolicamente la colonna vertebrale ormai deteriorata. Una miriade di chiodi sono conficcati nel suo corpo nudo. Le lacrime sgorgano silenziose ma i lineamenti non sono quelli di una persona piangente. Anche la Frida spezzata guarda dritto davanti sé. Nell’«Autoritratto con ritratto del Dr. Farill» (1951) si ritrae seduta su una sedia a rotelle nell’atto di dipingere il suo medico. Con una mano regge un mazzo di pennelli, con l’altra una tavolozza a forma di cuore sulla quale è disegnato, per l’appunto, un cuore innervato di vene rosse e blu. Simbolicamente Frida offre il suo cuore ad uno dei medici che l’ha curata e di cui ha molta stima.
Frida avvertiva un forte legame con la natura e con il creato. Anche questi temi sono ricorrenti nella sua produzione artistica, talvolta come sfondi, altre volte come soggetti principali, oppure è lei stessa a farsi pianta o animale. Nell’opera «Radici» (1943) – ad esempio – il suo corpo diventa la base da cui si dipartono i verdi rami che vanno ad attecchire nel terreno sottostante, mentre ne «L’abbraccio amorevole dell’universo, la terra, Diego, io e il signor Xolotl» (1949) si pone al centro dell’universo e di un abbraccio multiplo assieme alla persona che ha amato di più (Diego Rivera). Qui è Diego ad avere il corpo di un bambino ed il viso da adulto. Frida lo abbraccia con fare materno mentre entrambi sono sostenuti e abbracciati da una madre terra che li sovrasta. Alle loro spalle la maschera dell’universo con ai suoi lati un sole scuro e una luna chiara. Davanti, in basso, le gradi braccia del giorno e della notte, anche queste disposte in un abbraccio.
Dopo la sua morte la fama di Frida Kahlo si è diffusa in tutto il mondo. Sono state realizzate molte mostre in suo onore, due film, diversi documentari, biografie (più o meno romanzate), saggi, un francobollo, collezioni di moda, una grande quantità di gadget che ripropongono il suo volto e le sue opere. Frida era una donna disabile ma sarebbe improprio pensare a lei come ad una paladina della causa delle persone con disabilità. Le cause che sposò ufficialmente furono il comunismo e le rivendicazioni del popolo messicano. Inoltre è difficile ipotizzare che nel nascente Messico moderno esistesse già un movimento di emancipazione dei disabili. Un quadro che iniziò e che rimase incompiuto aveva per titolo «Il marxismo guarirà i malati» o «Pace in terra affinché la scienza marxista salvi gli invalidi e gli oppressi dal capitalismo criminale e yankee» (1954 circa) [2]. Esso mostra con chiarezza come, anche quando Frida fece sue le istanze delle persone disabili, tali istanze vennero inquadrate nell’ambito dell’ideologia politica che aveva sposato.
Certo, usò la pittura per raccontare sé stessa, e nel farlo raccontò anche la disabilità. Mostrò il suo corpo sanguinante, ferito, ingabbiato negli apparecchi ortopedici, in frantumi, in lacrime, sorretto dalla sedia a rotelle o con le stampelle. Ma in tutte queste rappresentazioni Frida non abbassò mai lo sguardo, non smise mai di fissare lo spettatore. C’è uno sdoppiamento, un dualismo psicologico tra la Frida che soffre e la Frida che guarda. C’è uno sguardo che non cede, che non consente di ridurre la persona al suo dolore, neanche quando è proprio il dolore il messaggio più esplicito dell’opera. E’ probabilmente in virtù del suo sguardo inflessibile che Frida Kahlo si è affermata come artista, e non come artista disabile. Sotto questo profilo, pur senza rivendicarla, riuscì a realizzare la vera inclusione.
«La sola cosa che so è che dipingo perché ne ho bisogno e dipingo sempre quello che mi passa per la testa, senza altre considerazioni.» (Frida Kahlo)
Note
[1] Sul rapporto tra l’arte di Frida Kahlo e il surrealismo, Hayden Herrera, critica d’arte americana, autrice della biografia più completa di questa artista, ha osservato: «[…] la visione di Frida era assai diversa da quella dei surrealisti. La sua arte non era il prodotto della disillusa cultura europea alla ricerca di una via d’uscita dai limiti della logica attraverso l’immersione nel subconscio. La sua immaginazione era piuttosto il prodotto del suo temperamento, della sua vita e del luogo; era un modo di scendere a patti con la realtà, non di scavalcarla per accedere a un altro territorio. Il suo simbolismo era quasi sempre autobiografico e relativamente semplice. Sebbene avessero una funzione privata, i dipinti di Frida, esattamente come i murali, intendevano produrre un significato accessibile.» (Herrera, [2001], p. 173)
[2] Raquel Tibol, critica d’arte e protagonista della scena artistica latino-americana che conobbe personalmente Frida Kahlo, fornisce la seguente descrizione di quest’opera: «Frida vi si rappresentò a figura intera, con gonna da tehuana e busto ortopedico, nell’atto di gettare le stampelle, con un libro rosso nella mano sinistra. Alle sue spalle compaiono una colomba della pace e una testa di Karl Marx; due mani possenti, una delle quali con l’occhio della sapienza sul palmo, accorrono a sostenerla, mentre un’altra mano strozza un uccello rapace con il volto dello zio Sam.» (Tibol, 2002, p. 68)
Bibliografia utilizzata
– Bonito Oliva Achille e Zamora Martha, Frida Kahlo, Art e dossier, n. 213, Firenze-Milano, Giunti, ©2005
– Cercenà Vanna, Frida Kahlo, illustrazioni di Marina Sagona, San Dorligo della Valle (Trieste), EL, ©2007
– Herrera Hayden, Frida. Vita di Frida Kahlo, 2. ed., a cura di Maria Nadotti, Narrativa, Milano, La tartaruga, [2001]
– Jamis Rauda, Frida Kahlo, trad. di Flavia Celotto, La gaja scienza, n. 334, Milano, Longanesi, ©1991
– Tibol Raquel, Frida Kahlo. Una vita d’arte e di passione, Milano, Rizzoli, 2002
Siti d’interesse
Frida Kahlo, sito ufficiale, ©2006 (ESP-ENG)
Museo Frida Kahlo, Casa azul, s.d. (ESP-ENG-FRE)
Frida Kahlo, pagina di Wikipedia, 21.03.2011 (ITA)
Frida Kahlo, Mexicoart.it, s.d. (ITA)
Monnalisa, Frida Kahlo, Forumtime.it, 21.10.2005 (ITA)
Nadotti Maria, Frida Khalo o della finzione narcisistica, Libera università delle donne, [1996] (ITA)
Ultimo aggiornamento: 11.04.2011