Storie di ordinaria diversità. Considerazioni del gruppo donne

di Gaia Valmarin

Che grande importanza possono avere le parole e quanto incidono sulla nostra vita: “Tu per me sei differente da chiunque altro!”, “Signora, purtroppo le devo dire che suo figlio ha un comportamento differente da quello del resto della classe..”. Due volte il termine “differente”, una per indicare un amore che crescerà, l’altra per segnalare un’anomalia nell’atteggiamento; la stessa parola per il bene e per il male.

Il Gruppo Donne della Uildm quest’anno, durante i lavori preassembleari tenutisi a Marina di Varcaturo (NA), ha voluto aiutarci a riflettere proprio sul concetto di differenza. Il seminario 2009, guidato dalla psicologa Cira Solimene della sezione di Napoli e dalla dottoressa Gaia Valmarin dell’Ufficio Comunicazione e Immagine della sezione laziale, è stato incentrato sul fatto che l’idea di differenza sia un principio relativo, e non assoluto. Il titolo questo recitava: “Storie di ordinaria diversità”, cioè a dire che nella peculiarità può esistere una quotidianità simile a quella di tanti altri.

L’incontro è cominciato confrontando uno spot pubblicitario molto famoso, quello della famiglia felice che fa colazione, con il video di una coppia di non vedenti assieme ai loro figli, tutti radunati attorno alla tavola per iniziare una nuova giornata. Ci si è chiesti quale dei due momenti rappresentasse la realtà, e soprattutto quale dei due nuclei familiari possa definirsi normale: quello dei genitori disabili, che però esiste, oppure quello della famiglia bella e perfetta, che invece non è reale?

Nel lessico comune con diversità si intende tutto ciò che si allontana dalla norma, ma questa non è sempre statica, varia in base all’epoca in cui si vive, alla cultura cui s’appartiene. Ciò che appare corretto in un’altra epoca e ad un’altra latitudine, se riportato nella nostra società può sembrare una mostruosità. Nell’antica Cina, le famiglie più in vista, per dimostrare di essere abbienti, usavano fasciare i piedi delle figlie così strettamente da renderli dei moncherini, tali quasi da impedire loro di camminare; in questo modo dimostravano che per sostenere economicamente la famiglia non era necessario che le ragazze lavorassero. Al giorno d’oggi una pratica come questa viene considerata una crudeltà, e delle figlie in uno stato simile un peso ed una responsabilità.

Si è proseguito il seminario con la testimonianza di Carmine, il padre del nucleo familiare di cui si è visto inizialmente il filmato. Ha raccontato le difficoltà e le gioie di una famiglia in cui entrambi i genitori vivono la cecità, ma che hanno saputo crearsi un’autonomia tale da permettere loro di crescere i propri figli da soli.

Il sociologo senegalese Ali Baba Faye ha raccontato di come più di venticinque anni fa arrivò in Italia per completare i suoi studi e poi, inventandosi mille lavori, si integrò così bene da riuscire ad aiutare gli altri africani che, appena arrivati nel nostro Paese, si sentivano disorientati ed avevano difficoltà ad adattarsi. Sposò un’italiana e, superate le prima perplessità dei parenti, il percorso dei due sposi è proseguito ed è stato coronato dalla nascita di tre bambini “color cappuccino”, che sono la dimostrazione che con l’amore e un po’ di speranza per il futuro, le differenze si accorciano.

Momento emotivamente molto intenso è stato quello che ha visto l’attore Antonello De Rosa recitare un brano tratto dal “De Profundis”, lettera che Oscar Wilde scrisse dal carcere in cui era stato rinchiuso all’amante e causa delle sue pene. Di seguito l’attore ha interpretato un brano scritto di sua penna, attraverso cui ha condiviso con tutti il concetto che l’amore è sempre uguale e sempre degno di rispetto. Al tempo stesso non si deve dimenticare, però, che è di una persona che ci si innamora, nella sua interezza e unicità, e che si dovrebbe assorbire lo splendore che essa per noi emana, al di là del genere al quale appartiene e dell’orientamento sessuale.

E’ evidente come il Gruppo Donne con questo seminario e con quelli degli ultimi anni, voglia discostarsi dall’idea di una nicchia solo per disabili o per donne, ed affrontare sensazioni comuni al cuore di tutti gli esseri umani.

L’approccio sociologico delle storie di vita nello studio della fecondità

di Isabella Quadrelli

Questa relazione si basa su un’iniziale analisi della bibliografia sull’approccio biografico. Le fonti citate ed i temi individuati rappresentano pertanto una trattazione non esaustiva delle possibilità e dei problemi che si possono incontrare qualora si utilizzino le storie di vita nello studio della fecondità. In particolare non sono stati affrontati temi quali la relazione tra intervistato e intervistatore, le modalità di analisi dei dati e la scrittura del rapporto di ricerca.

1. Orientamenti teorici dell’approccio biografico

L’approccio biografico indica in sociologia una serie di tecniche metodologiche alquanto diversificate volte alla raccolta ed all’analisi di racconti di vita, scritti o orali, sollecitati o autoprodotti, di soggetti “indicati come rappresentativi di una certa realtà o significativi proprio per la particolarità del loro percorso esistenziale”1. Normalmente si preferisce parlare di approccio piuttosto che di metodo poiché sono molti i riferimenti teorici e metodologici degli studiosi che utilizzano l’approccio biografico.

Tendenzialmente si può affermare che l’approccio biografico può essere utilizzato per valorizzare gli aspetti soggettivi di una narrazione (avvicinandosi cosi alla psicologia) oppure quelli oggettivi relativi all’analisi del contesto. E’ possibile inoltre evidenziare la tendenza di alcuni autori a privilegiare un’interpretazione di tipo fenomenologico, di stampo antipositivista, secondo la quale l’unica realtà sociale conoscibile è il prodotto della narrazione dell’individuo e l’enfasi di altri sul ruolo dei metodi biografici come supporto agli strumenti di tipo quantitativo e come suscettibili di analisi quantitative secondo un’epistemologia di stampo neopositivista (Guidicini, 1995, Campelli, 1982).

L’orientamento fenomenologico e antipositivista caratterizza la tradizione più recente degli studiosi che utilizzano la narrative analysis. Per questa tradizione il linguaggio assume un ruolo cruciale come mezzo di interpretazione e di costruzione della realtà. Il linguaggio non è un medium neutrale attraverso il quale l’esperienza viene semplicemente conservata e trasmessa ma è uno strumento attraverso il quale l’esperienza viene interpretata e modificata mettendo in gioco l’individuo con la sua identità personale e il suo bagaglio culturale e sociale. La narrazione è quindi un atto performativo che si adatta al particolare contesto in cui è esplicitato. La narrazione è quindi un modo attraverso il quale il soggetto ordina e attribuisce senso alla propria esperienza si tratta di un processo che può essere effettuato solo ex-post (Siciliano, 1998).

L’orientamento positivista privilegia invece la raccolta di “informazioni il più possibile oggettivabili” (Guidicini, 1995, p. 102) che permettano l’analisi congiunta e comparata di diversi casi e di effettuare “inferenze” che consentano di affermare se e in che misura il caso individuale rimanda al sociale (Campelli, 1932).  In questa tradizione è accettata la premessa che il linguaggio veicoli esperienze e fatti della realtà oggettiva che occorre individuare e ‘misurare’ al fine di raggiungere delle conclusioni valide.

2. La dimensione individuale e la dimensione sociale nelle storie di vita

In entrambi gli approcci è tuttavia evidente il riconoscimento della compresenza nella storia di vita di elementi contingenti e di strutture sociali (Alheit, Bergamini, 1996), delle dimensioni individuali e collettive degli eventi. Questo tentativo di integrazione è particolarmente evidente in quegli approcci teorici che cercano di accostare l’approccio biografico a quello del corso di vita.

Il corso di vita è “l’insieme dei modelli di vita graduati per età, incastonati nelle istituzioni sociali e soggetti a cambiamento storico” (Elder, 1991, citato da Olagnero e Saraceno, 1993, p. 59). In questo concetto sono implicite, da un lato, l’idea che l’identità individuale e collettiva si costruisce  nel tempo considerato come tempo individuale, tempo delle generazioni e tempo storico e, dall’altro, l’ipotesi che l’identità individuale si costituisca attraverso relazioni sociali significative con altri soggetti in cui l’individuo si riconosce e si specchia e con i quali condivide esperienze ed appartenenze. La prospettiva del corso di vita prende dunque in considerazione sia le traiettorie e le transizioni individuali (il passaggio da un’età all’altra, da un ruolo all’altro) sia le relazioni e le appartenenze (il gruppo dei pari, la coppia, la famiglia, ecc.) (Olagnero e Saraceno, 1993).

Inoltre questo approccio consente di connettere le biografie individuali al comportamento collettivo come parte di un continuum di mutamento storico. Il mutamento sociale è testimoniato innanzitutto dai modi diversi con cui gli individui che si trovano sulla scena sociale in periodi successivi organizzano, scandiscono e danno senso alla propria biografia. Coorti successive hanno corsi di vita diversi in quanto incontrano insiemi di risorse e vincoli, sia a livello materiale che culturale, che impongono loro di organizzare in maniera diversa le proprie vite. Tuttavia occorre anche tenere conto del fatto che il mutamento sociale non si realizza solo attraverso processi di assoluta discontinuità ma attraverso interdipendenze e le conseguenze di lungo termine dei comportamenti messi in atto dalle coorti precedenti.

Il concetto di coorte serve a collocare gli individui di cui si studia il corso di vita nel loro specifico tempo storico e a comprendere il nesso tra mutamento sociale e modelli di vita. Attraverso l’analisi di coorte si può analizzare come la storia collettiva, intesa come succedersi di eventi, come forma di organizzazione sociale e come insiemi di modelli normativi e culturali, è incontrata da una particolare coorte, con tutte le sue differenziazioni interne lungo il corso di vita.

Infine, attraverso il concetto di traiettoria individuale, l’approccio del corso di vita consente di tenere in considerazione le situazioni concrete in cui gli individui sono collocati. La traiettoria individuale, ossia il percorso seguito in una determinata esperienza con il trascorrere dell’età, risente delle interdipendenze delle traiettorie di vita dei soggetti che costituiscono il sistema di rapporti sociali degli individui. Ciò significa che l’individuo non dipende solo dai propri sistemi di significato, dai propri vincoli e risorse ma anche da quelli di coloro con i quali la propria traiettoria si incrocia e si interseca. Le conseguenze delle interdipendenze di questo tipo sono evidenti in maniera particolare nei momenti di transizione come possono essere il matrimonio, la nascita di una figlio, il ritorno al lavoro dopo la maternità, ecc. (Olagnero e Saraceno, 1993)

3. Il problema della validità e della affidabilità delle storie di vita

Nel caso dell’orientamento neopositivista, la validità e l’affidabilità dell’approccio biografico viene individuata nella possibilità di controllare le inferenze effettuate a partire dai dati biografici. Bertaux 2 propone a tale proposito il metodo della ‘saturazione’. Nell’indicare il numero ideale di “recits de vie” da utilizzare in una ricerca  egli afferma che esso risiede nel punto di saturazione, cioè in quel momento in cui un ennesimo caso non aggiunge nulla alla conoscenza acquisita: a questo punto si ritiene che l’inferenza sia sufficientemente stabilita. Da questo punto di vista, secondo Campelli, l’approccio biografico non presenta una specificità logica che lo distingue dall’epistemologia neo-positivista. “[…] lo scopo dell’indagine è quindi quello di pervenire ad una inferenza finale non (interamente) sconfermata: non quindi il procedimento autocorrettivo in sé, quanto piuttosto un’inferenza dotata di senso” (Campelli, 1982, p. 86). L’approccio biografico in questo senso si presenta solo come più flessibile rispetto ad altri metodi di ricerca soprattutto di tipo quantitativo 3.

Il problema della validità nell’orientamento fenomenologico non si pone in quanto tale poiché si parte dal presupposto che non esista una realtà oggettiva che la ricerca deve riflettere. Tuttavia si pone il problema della storia di vita come possibile ‘finzione’ o ‘mitologia’. Osterland solleva la questione che, se la narrazione individuale rappresenta un’immagine di sé che serve a proteggere l’identità del soggetto, se essa acquisisce i contorni di un’ontologia del sé, allora essa non è più utile alla sociologia ma bensì può diventare un campo di interesse della narrativa o della psicoanalisi. Il problema della rilevanza sociologica del racconto di vita viene risolto attraverso l’affermazione che esiste una stretta relazione tra il ‘corso di vita’ ed il ‘racconto della vita’. Qualsiasi specifico corso di vita non produrrà qualsiasi storia di vita. L’esperienza personale può venire modificata dal racconto ma essa è tuttavia l’espressione di un determinato mondo storico e sociale.  Inoltre la narrazione contiene in sé degli elementi normativi che non possono essere arbitrariamente forzati: esistono norme di interazione che vanno rispettate, una sequenza coerente, ogni evento rilevante possiede degli antecedenti e degli effetti successivi individuabili.

Le proprietà normative della narrazione ed il contesto storico-sociale di appartenenza costituiscono dunque dei limiti alle potenzialità ‘mitologiche’ delle narrazioni (Alheit, Bergamini, 1996).

4. Tecniche di rilevazione

Le tecniche di raccolta dei dati biografici si caratterizzano generalmente per una tendenziale apertura dello strumento di ricerca che consente di dare spazio al ricordo spontaneo. Tuttavia sono possibili gradi diversi di strutturazione del processo di stimolo e raccolta dei dati.

L’intervista in profondità non strutturata rappresenta uno degli strumenti privilegiati degli studiosi che utilizzano l’approccio biografico. Il ricercatore si limiterà a dare degli input per stimolare l’intervistato a parlare delle proprie esperienze e ricordi, egli si sentirà comunque libero di seguire il flusso dei suoi pensieri e di presentare quei fatti che egli/ella ritiene rilevanti ai fini del significato che intende attribuire alla propria narrazione. In questo modo è il soggetto stesso che fornisce gli elementi ed introduce i temi che poi saranno rilevanti ai fini stessi della ricerca.

Tuttavia un approccio totalmente non strutturato può avere come conseguenza lo sconfinamento in ambiti che non rientrano tra gli interessi del ricercatore e la poca omogeneità dei dati. Inoltre alcuni intervistati possono presentare un copione predefinito, già utilizzato in altre occasioni che si limita a fornire alcuni dati poco rilevanti senza entrare in profondità, incapace di veicolare le vere emozioni dei soggetti.

Per evitare questi inconvenienti e per venire incontro alle esigenze conoscitive del ricercatore è possibile introdurre dei ‘vincoli’ che strutturano parzialmente le interviste in profondità. Tali vincoli possono essere di ordine temporale, tematico o per punti codificati (Guidicini, 1995). Nel primo caso si forniscono delle indicazioni di ordine temporale che individuano l’inizio, la fine e le tappe principali della narrazione della storia di vita; nel secondo e nel terzo caso i vincoli delimitano dei temi di indagine o degli aspetti ritenuti importanti per la trattazione del tema della ricerca. Questi vincoli consentono di strutturare alcuni aspetti della rilevazione in base a variabili e temi ritenuti particolarmente rilevanti ma allo stesso tempo si inseriscono in uno schema aperto di raccolta dei dati nel quale il racconto spontaneo e libero è tendenzialmente privilegiato.

5. La raccolta di storie di vita e gli obiettivi della ricerca VENUS

Le storie di vita rappresentano, nel disegno della ricerca presentato dall’Unità di Urbino, uno strumento per la raccolta di dati qualitativi complementare alla tecnica dei focus group. Attraverso i dati ottenuti con le storie di vita si intende infatti analizzare alcuni aspetti ritenuti importanti nell’influenzare il comportamento riproduttivo privilegiando però la dimensione individuale piuttosto che quella di gruppo e favorendo un’analisi soggettiva e in profondità piuttosto che l’individuazione degli elementi che costituiscono le rappresentazioni sociali.

In particolare tra gli obiettivi individuati dall’Unità di Urbino, le storie di vita risultano particolarmente adatte all’analisi delle caratteristiche “del contesto sociale, culturale e familiare entro cui si applicano i differenti stili di comportamento riproduttivo” in relazione alla “condizione socio-professionale e lavorativa” e tenendo in considerazione il “cambiamento intergenerazionale” 4 . L’analisi di questi aspetti risente positivamente dell’approccio biografico che connette la dimensione dell’esperienza individuale con i vincoli e le risorse del contesto sociale e culturale e che, attraverso la valorizzazione della dimensione temporale, è in grado di rendere conto dei cambiamenti di prospettiva e di valori da una generazione all’altra.

Inoltre la raccolta di dati qualitativi risulta fondamentale per esplorare aspetti quali:

“la percezione della genitorialità (percezione di ruoli, aspettative e funzioni ascritte alla figura genitoriale”;

“le opinioni che i genitori hanno nei confronti della qualità della loro vita in relazione a quella dei figli”;

“la valutazione dei costi economici e non economici dei figli”

“un esame dell’influenza esercitata dalle politiche sociali”

“un approfondimento del rapporto esistente tra famiglie, da un lato, ed esperti e servizi dall’altro” 5.

La realizzazione di questi obiettivi, ed in particolare l’individuazione delle motivazioni e delle rappresentazioni individuali che sottostanno a diversi comportamenti riproduttivi, richiede, a nostro avviso, un approccio di tipo fenomenologico nella convinzione che il tipo di realtà conoscibile è quella proposta dal soggetto nel momento in cui è sollecitato a organizzare e dare senso alla propria esperienza individuale. Tuttavia, è necessario riconoscere che l’esperienza individuale ed i modi in cui essa viene riportata è fortemente influenzata dal contesto sociale e culturale di appartenenza nonché dalle condizioni materiali e dalle circostanze effettive che costituiscono le traiettorie di vita individuali. L’interpretazione della propria esperienza risente quindi delle circostanze concrete che caratterizzano la vita degli individui nonché dell’ambiente sociale e del contesto storico in cui tali esperienze hanno luogo. Per tali ragioni, l’attenzione agli aspetti contestuali e l’adozione di un approccio come quello del corso di vita risultano determinanti.

La raccolta dei dati non potrà pertanto avvenire che attraverso uno strumento tendenzialmente aperto puntellato però da vincoli di ordine temporale e tematico. I vincoli di ordine temporale dovranno fornire delle indicazioni sui limiti cronologici del racconto di vita (il fidanzamento, il matrimonio, la nascita dei figli), i vincoli tematici dovranno indicare alcuni aspetti del problema sui quali concentrare l’attenzione (rapporti con la famiglia di origine, la qualità della vita, il rapporto con i servizi, ecc.). Questi vincoli determineranno inoltre una struttura minima entro la quale analizzare i dati.

Infine, l’interesse per le motivazioni che caratterizzano comportamenti riproduttivi differenziati richiede di prendere in considerazione soggetti con livelli di fertilità differenziati (coppie senza figli, con un figlio, con tre o più figli) e con diversi background socio-culturali (livello di istruzione, tipo di occupazione, ecc.).

BIBLIOGRAFIA

AA.VV. (1980) Cahiers internationaux de sociologie, numero speciale “Histoires de vie et vie sociale”, Parigi, Presses Universitaires de France

Alheit P., Bergamini S. (1996) Storie di vita. Metodologia di ricerca per le scienze sociali, Milano, Guerini

Campelli E. (1982) “Approccio biografico e inferenza scientifica”, in: Sociologia e ricerca sociale, anno III, n. 9, pp. 71-94

Cipriani R. (1996) “La metodologia delle storie di vita”, in Cipolla C., De Lillo A. (a cura di), Il sociologo e le sirene. La sfida dei metodi qualitativi,.Milano, Franco Angeli.

Denzin N., Lincoln Y. (eds.) (1998), Collecting and Interpreting Qualitative Materials, London, Sage.

Guidicini P. (1995) Questionari Interviste Storie di vita. Come costruire gli strumenti, raccogliere le informazioni ed elaborare i dati, Milano, Franco Angeli.

Giddens A. (1991) Modernity and Self-Identity. Self and Society in the Late Modern Age, London, Polity Press.

Olagnero M., Saraceno C. (1993) Che vita è. L’uso dei materiali biografici nell’analisi sociologica, Roma, La Nuova Italia Scientifica.

Siciliano E. (1998), “Approccio biografico”, supplemento metodologico su cd del volume di A. Melucci Verso una sociologia riflessiva, Bologna, Il Mulino.

Io e la mia diversità

di Carmine Galano

Per alcune patologie non è possibile arrivare a capire perché abbia avuto questo problema di cecità. Operato ad entrambi gli occhi, uno riuscì l’altro no. Fino a 18 anni ho avuto la grande possibilità di vedere il mondo….. nella sua esteriorità, nei suoi colori, nelle sue bellezze e anche nella sua durezza proprio come… pietra. Dopo di che per un altro problema comparso…. io sono stato sempre un po’ testa calda, a dire la verità,  non mi sono lasciato perdere nulla. Volevo portare il motorino? E ho imparato a portare il motorino. Volevo giocare ai videogiochi? Mi mettevo là e stavo ore e ore a giocare ai videogiochi…E’ normale gli occhi si stancavano e ho avuto un problema di distacco di retina. Non c’è stata possibilità di rimetterlo in sesto. Abbiamo visitato tanti medici, anche fuori Napoli, però purtroppo la cruda realtà fu che la retina era completamente sfaldata, non c’è stata alcuna possibilità. Allora a quel punto ti metti là a pensare e dici “Ok, avevo una vita normale, che cosa mi cambia non vedere?”. Certo la difficoltà è quella sai che, è normale, sai che dipendi da qualcuno, poi un po’ perché mia mamma era molto protettiva proprio su questo. Tentavo di scendere da solo con il bastone…lei mi diceva “non ti preoccupare ti accompagno io”. Allora io dicevo sempre “ma devo imparare a muovermi da solo perché domani io non so che cosa posso fare”. Anche perché noi in famiglia eravamo tutti uomini. Ho due fratelli, mia mamma  mi imponeva di imparare tutto, a cucinare, a lavare, a stirare rimettere a posto le cose. Sono distratto, un po’ disordinato. Ho imparato a cucinare, ho imparato a fare tante cose. Cosa è cambiato allora dal vedere al non vedere? L’unica cosa è che dipendi dagli altri,  devi essere accompagnato. Però mi rendo pure conto che sono anche gli altri ad aver bisogno di noi  più che noi di loro e questo è un punto di base che ho dato alla mia vita. Ho un lavoro, ho una famiglia, ho tutto quello che nella vita volevo. Due mi cose principali mi hanno permesso di ottenerle e di non fare l’invalido a vita: la famiglia e il carattere. Sono le due uniche cose che sinceramente ti possono portare alla rovina o ti possono elevare. Cosa mi hanno dato i miei genitori perché io potessi realizzarmi nella vita…Con mio padre non c’è mai stato un grandissimo rapporto, un dialogo, perché mio padre era un po’ un tipo burbero, il classico uomo che doveva lavorare, doveva pensare alla famiglia…Basta. Lì finivano le cose. Mia mamma era quella che comunque nel suo modo di essere, anche perché effettivamente i miei genitori non avevano chi sa che tipo di studi, di cultura…Però mia mamma, ecco, era quella che si occupava di tutte le cose, anche burocratiche, la famiglia…ed è stata  quella forse più dura in certi modi, perché ricordo alcuni episodi, per  esempio, in istituto, per una schifosissima penna stilografica che si dimenticò di riempirmi, io facevo la differenza, io le dicevo “no tu ci tieni più a Mario e a Franco che a me”. Mia mamma disse “Carmine, andiamo a casa, l’andiamo a riempire e te la prendi”. No, io mi impuntai che non volevo tornare a casa. Mi ha punito per un mese, senza tornare a casa. Quel mese è durato tre mesi, tre mesi in istituto ininterrottamente giorno e notte perché ci fu un’epidemia di congiuntivite e stemmo tutti quanti chiusi in istituto. E’ stata una lezione non indifferente da capire. Ormai sono passati quasi trent’un anni, lo ricordo come se fosse stato ieri. E poi mi ha dato massima libertà, sempre la fiducia. Nel momento in cui ho tradito la sua fiducia lei si è sempre imposta a dire “No ora fai quello che dico io”. Infatti il primo anno del corso di fisioterapista, il fatto di ritornare a casa tutte le sante sere ti sentivi libero, mi scocciavo di studiare, volevo andare a giocare a biliardino…. Mia mamma diceva “No. Ti hanno bocciato? Benissimo, l’anno prossimo ti fai il convitto”. Altri tre anni di filato al Colosimo. Questi sono stati veramente punti di forza, punti di incontro, perché è vero che dopo ha voluto fare la protettiva portandomi a destra e a sinistra, senza lasciarmi la possibilità di imparare a muovermi da solo, però sono stati comunque i miei punti di partenza per arrivare dove sto oggi. Il mio nome come fisioterapista ad Ercolano, Portici, San Giorgio, Torre del Greco lo conoscono in centinaia persone. Napoli… ho fatto un’altra esperienza. Mi sono trasferito da Ercolano, dal Centro dove lavoravo, a Napoli. Mi sono messo in gioco, anche con altri colleghi che io non conoscevo. Tu non puoi mai sapere quando vai ad incontrare una nuova persona che impatto hai, perché giustamente  un conto è che mi conoscevano ad Ercolano… ormai sapevano il mio valore, c’è ormai un rapporto di affetto, amicizia, fratellanza quasi come in una famiglia. Però andare a confrontarsi con altre persone diventa  un po’ più particolare. E pure lì sono riuscito a dare tutto quello che conosco e tutto quello che posso dare. E questi sono stati veramente i miei punti di forza. Se tu hai in una famiglia genitori iperprotettivi che, per amor del cielo non condanno, non condanno perché io sono genitore e sono il primo a preoccuparmi se mio figlio i sabato sera esce con la macchina e va ballare. E’ normale. Però da  genitore io devo anche dare la fiducia a mio figlio di non poter commettere degli errori. Errare humanum est, perseverare est diabolicum. Però in partenza se sbagli una volta e sai  che puoi riprenderti è un conto , se sbagli due volte no. Allora due sono le cose o sei stupido o non ci arrivi. Proteggere troppo è anche un problema, perché se vai a proteggere vai a distruggere, specialmente se un ragazzo caratterialmente non è forte, non ne esce. Allora lo blocchi, lo vai ad inibire, lo chiudi in se stesso e poi mi chiedo che vita avrà questo ragazzo? Perché purtroppo la consapevolezza di ognuno di noi è quella che noi siamo carne che dovrà finire. Come li lasciamo questi ragazzi domani? E’ chiaro che il vissuto di diversità non può essere annullato, esiste….l’inizio è stato abbastanza duro da parte mia, perché io che mi rendevo conto di essere un aiuto per chi non vedeva, mi trovavo nella loro stessa condizione, cioè quella di essere aiutato, però a quel punto dovevi scegliere in che modo andare a prendere la tua vita. Quello di sederti, sono un fumatore, avrei  dovuto stare 24 ore su 24 su una sedia con la sigaretta in mano, e questo avrei dovuto fare.  Ho detto no, è giusto che io viva la mia vita secondo una mia normalità. Diciamo che un taglio proprio netto non riesco a farlo. Ero scherzoso e allegro prima e ho continuato ad esserlo anche dopo, come si suol dire ho girato la pagina. Mi sono detto “Carmine, alla fine che cosa ti manca? guardare il sole? l’hai visto”. Avevo 18 anni quando non ho visto più la luce, un’ età non facile  perché stai nel pieno della maturità, del passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Se questo non riesci a farlo in quel momento, non lo fai più. Ho esperienza di tanti altri amici che hanno preso i titoli di centralinista, fisioterapista, stanno chiusi in casa perché le famiglie iperprotettive non lo accettano anche perché devi calcolare che io ho notato questo. Io, uscendo fuori dall’istituto non ho preferito avere grossi rapporti  con i miei stessi amici. Ti spiego perché. L’istituto è una famiglia, però io da questa famiglia devo uscire, non posso rimanere ancorato sempre ed esclusivamente a mio fastello con lo stesso problema, io devo allargare i miei orizzonti, io non mi posso fermare se no che cosa succede? il mio habitat naturale sarà soltanto l’unione italiana ciechi quando si incontrano e gli amici per andare a fare le gite.  No. Allora i miei amici sono vedenti, i miei più cari amici sono tutte persone di un età molto grande e poi ho voluto cominciare a fare esperienza su tutti i campi: ho fatto politica, un po’ di protezione civile, faccio teatro. Questo grazie al fatto che ho avito persone che hanno saputo tirare fuori da me il meglio di me stesso, tipo l’ Interclub Napoli “Dal Vesuvio con amore” che è un club sportivo… Mi hanno tirato fuori veramente il meglio di me stesso. Cioè andavo allo stadio con loro, ridevo, scherzavo, abbiamo fatto trasferte. Tutto questo mi ha dato la possibilità di non avere alcun dubbio sulle possibilità di metter su una mia famiglia nel momento in cui mi sono innamorato di Maria, mia moglie, e di mettere al mondo due figli.

Chi sono?

di Antonello De Rosa

Per chi come me è nato cresciuto nel centro storico di Salerno, dove la vita è continuo teatro, comico e tragico nello stesso tempo, dove le liti delle comari sono realtà di tutti i giorni, dove i giochi dei bambini non sempre sono troppo innocenti, dove la lingua ha conservato il  meglio della nostra tradizione in bene e in male, tra il puzzo che viene fuori dai vicoli, dai cosiddetti “vasci” dove molti, ancora si “arrangiano” per campare, l’amore per il teatro nasce come un fatto spontaneo in quella tragicommedia che è la vita di tutti i giorni. S’impara soprattutto a ridere anche degli aspetti più bassi della vita umana, s’impara a fare della poesia anche dove c’è lo squallore più profondo.

Ecco, sono figlio di un Bronx (teatrale) minore, ho frequentato l’Accademia di Belle Arti a Napoli come scenografo. Ho frequentato un corso internazionale di Mimo-Corporeo. Ho frequentato corsi di Regia teatrale. Ho frequentato …

Da piccolo, ho sempre amato tutto ciò che era, che è, “diverso”…

Dalle pagine degli autori che metto in scena – alcuni fra i maggiori dei post-eduardiani, come vengono definiti per un estremo, forse ineludibile omaggio all’ingombrante fantasma – viene fuori che, sono anima notturna, crudele, poetica e sognante…

Le storie che racconto sono spinte fino ai limiti dell’incubo, dell’irreale, del sogno… e hanno come protagonista non più la famiglia, valore centrale – pur nelle sue infinite contraddizioni – della fabula defilippiana, ma un sesso assai poco solare, comunque non fecondo, non procreativo, certo devastante nei suoi risvolti sadomaso, in ogni caso decisamente tragico, addirittura funebre, pur nello splendore della lussuria; un eros malato, si direbbe, se la malattia non fosse, ormai, soltanto l’altra faccia di un’improbabile sanità.

Ho il bisogno spasmodico di cancellarmi sulla scena per abbracciare i gradi più profondi dell’alterità; l’esigenza, quindi, di travestirmi, che è poi esigenza di assumere un carattere diverso dal proprio, di apparire differenti da come si è. Ma, a ben vedere, è questo l’obbiettivo di fondo di ogni attore e, nello stesso tempo, il suo problema,la ricerca, ma anche la coscienza.

Ecco, ho parlato di me, semplicemente usando la mia anima, cioè: usando il teatro. Il mio teatro…

E come diceva Luigi Compagnone nel romanzo “L’allegria dell’orco”:

“Un diverso… Un diverso… Un diverso, e allora? Egli partecipa alla diversità che è in tutte le cose. L’infinito è pieno d’infinite diversità. Quindi nessuna cosa è meglio o peggiore di un’altra.”

Aly Baba Faye

Mi chiamo Aly Baba Faye sono nato il 22 agosto 1961 a Rufisque (Senegal). Sono sociologo di formazione ma all’Accademia ho sempre preferito l’impegno sociale, anche se ho al mio attivo qualche attività di ricerca sociale e di consulenza alle pubbliche amministrazione.

Vivo in Italia dal 1984 e dal 1986 sono impegnato a favore dei diritti degli immigrati e per il dialogo tra diversi e la convivenza civile.

Ho iniziato il mio impegno civile in Italia quando l’Italia divenne a tutti gli effetti un paese di immigrazione, come animatore di comunità. Sono stato segretario nazionale del CASI (Coordinamento Associazioni Senegalesi in Italia) e in questa veste sono stato tra i promotori della prima Manifestazione Nazionale contro il razzismo nel 1989 in seguito dell’assassinio di Jerry Essan Masslo, un rifugiato sudafricano a Villa Literno. In quella veste ho incontrato diverse personalità alcune delle quali hanno segnato il mio percorso come Tom Benetollo, Padre Balducci, Monsignor Luigi Di Liegro, Dino Frisullo tra i più noti.

Poi sono stato chiamato da Bruno Trentin per gestire il progetto immigrazione della CGIL, così entrai come primo straniero nel direttivo nazionale della confederazione nel 1991 e fui eletto a capo del coordinamento nazionale dei lavoratori immigrati. Nel 1997 passai alla FLAI (Agroalimentare) dove ho assunto diverse responsabilità (artigianato alimentare, PMI (contratto CONFAPI), Comparto tabacco (seguendo i processi di privatizzazione dei Monopoli di Stato), Il settore lattiero-caseario (seguendo i processi di ristrutturazione e di privatizzazione delle centrali del latte), infine ho seguito la legge 626 in quanto responsabile del Dipartimento sicurezza sul lavoro della FLAI. Nel 1998 sono diventato Vice Segretario generale della Flai di Pomezia e ho seguito diverse aziende della zona.

Lasciai l’impegno sindacale nel 2001 quando i DS mi proposero una candidatura per il consiglio comunale di Roma ma non fui eletto così la dirigenza del partito mi propose di lavorare per un progetto di partecipazione politica degli immigrati alla vita del partito. Diventai coordinatore nazionale del Forum Fratelli d’Italia e poi responsabile nazionale delle politiche dell’immigrazione per il partito. Nel 2006 sono stato candidato alla Camera dei Deputati nella lista dell’Ulivo ma in una posizione non eleggibile (24° posto). Nel Maggio 2007 sono tra i promotori di Sinistra Democratica con Fabio Mussi.

Il filo rosso del mio impegno potrebbe essere riassunto in una fede nel cosmopolitismo come variante di un nuovo umanesimo basato sul dialogo tra diversi e la contaminazione culturale per una nuova Civiltà dell’Universale. Una fede che si è materializzata anche nelle mie scelte private. Infatti sono musulmano e sono sposato con una donna italiana cattolica da cui ho avuto tre splendidi figli. Mi piace guardarli come cittadini del mondo e per loro sogno un’Italia aperta, tollerante e solidale in un mondo pacificato.

Nel mio pantheon ci sono personaggi come Ghandi, Martin Luther King, Leopold Sedar Senghor, Nelson Mandela.

Sono un fan sfegatato e sostenitore di Barack Obama, è per questo che sono stato il primo cittadino non-americano ad aver creato un comitato di sostegno alla sua candidatura (Comitato Audacia di sperare) e collaboro con Team dei Democrats Abroad che sostengono il senatore africano-americano dell’Illinois.

1 – Elisabetta Siciliano (1998), supplemento metodologico su cd del volume do A. Melucci Verso una sociologia riflessiva, Bologna, Il Mulino. [torna su]

2 – Citato da Campelli, 1982, p. 85. [torna su]

3 Ibidem [torna su]

4Scelte di fecondità, ambiente sociale e biografie individuali, Progetto di ricerca dell’Unità di Urbino. [torna su]

5Ibidem. [torna su]

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