Affrontare il cambiamento: percorsi e strategie
di Chiara Todaro (psicologa)
L’esperienza non è ciò che capita ad un essere umano;
è ciò che egli fa con ciò che gli capita.
(Aldous Huxley)
Non è tanto rilevante ciò che capita all’individuo in termini di gravità, o intensità,
ma il suo atteggiamento mentale nei confronti di tali eventi.
L’adattamento e lo sviluppo
Da cosa dipende la nostra felicità? E’ davvero colpa di mamma se non riesco ad avere nella vita ciò che avrei voluto? Esiste la sfiga?
L’esito delle nostre vite, il livello di benessere che noi percepiamo sono il risultato di tre componenti:
- come nasciamo: le caratteristiche intrinseche di un individuo, le parti innate del nostro carattere e della nostra personalità, quelle che il caso e la genetica hanno determinato nel momento del concepimento: essere maschio piuttosto che femmina, avere due begli occhioni azzurri, essere timidi, avere senso dell’umorismo, soffrire di asma allergica, avere l’autismo o la distrofia muscolare…
- lo stile di attaccamento instaurato con i propri genitori, (o di qualunque persona che faccia da genitore a un bambino, le cosiddette “figure di attaccamento”), ossia la qualità del legame, del rapporto che abbiamo instaurato con mamma e papà in termini di sicurezza e protezione, di libertà di potersi sganciare per esplorare quello che c’è intorno a noi, di possibilità di sentirsi amati e accettati in maniera incondizionata.
- gli eventi di vita: tutto ciò che, semplicemente, ci capita: dall’avere un amico del cuore al frequentare gli scout, dalla cassa integrazione del papà al terremoto, dalla maestra delle elementari molto in gamba alla proverbiale tegola in testa e via succedendo…
In tutte e tre queste categorie possono rientrare fattori protettivi o fattori di rischio, ossia storie, relazioni e accadimenti che nel primo caso sono positivi, ci aiutano a vivere bene, o a sopravvivere alle avversità della vita o, nel secondo caso, che concorrono a renderci infelici e insoddisfatti, fino alla possibilità di soffrire di disturbi psicologici; come i mattoncini in una casa possono essere ben saldi e solidi oppure fragili e friabili: più sono quelli solidi, meno probabilità ci saranno che la casa risulti danneggiata, o che addirittura crolli.
Indubbiamente avere una patologia degenerativa come la distrofia muscolare rappresenta, nella struttura della casa ideale della vita, un mattone un bel po’ sgretolato, ma non è detto che questo porti inesorabilmente la persona all’infelicità cronica o all’insoddisfazione esistenziale, per lo meno non sarà l’unico fattore a far sì che questo avvenga. Questo ci pone nell’ordine di idee di operarsi per incrementare i mattoncini solidi, ossia di potenziare i mezzi naturali di un individuo in termini di risorse o, come recita l’ICF (la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della disabilità e della salute, con un’espressione a mio parere poco simpatica), delle “capacità residue”.
Il seminario si è aperto con una domanda: Che cosa hanno in comune tutti gli esseri viventi della terra, uomini e camaleonti compresi?
Risposta: la capacità di adattarsi alle situazioni nuove che l’ambiente intorno, sempre mutevole e talvolta anche imprevedibile, pone costantemente all’individuo. E’ proprio tale adattabilità che ci salva letteralmente la vita: nel momento in cui l’ambiente, sotto forma di estate che avanza, o di medico dai modi vittoriosgarbici che fornisce una diagnosi invalidante, presenta a una persona le sue sfide, la misura della flessibilità di quest’ultima nell’affrontarle e il ventaglio di possibilità di scelta troveranno una corrispondenza nella sua qualità di vita e nel suo grado di benessere, in tutta la gamma che può andare nel primo caso dal continuare a lamentarsi per il gran caldo al decidere di comprare un condizionatore, nel secondo, ad esempio, dal subire una diagnosi restando nel dolore dell’impotenza, rinunciando anche a chiedere informazioni e chiarimenti, al reagire secondo modalità più adattive anche se forse più faticose, come vedremo in seguito. (una persona usa una modalità di comportamento adattiva quando “conforma le proprie caratteristiche alle condizioni ambientali”; come quando mia nonna ha accettato di imparare a rispondere al cellulare che suona perché il beneficio che ne trae -parlare con il figlio – è maggiore dello sforzo che richiede alle sue capacità cognitivo-tecnologiche di nonagenaria.)
Per quanto riguarda l’argomento che stiamo trattando e tornando alla nostra metafora edilizia… i mattoni che ci interessa potenziare saranno quelli delle abilità – cognitive e emotive, in una parola psicologiche – di fronteggiare il mattone, tanto “difettoso” quanto “portante”, di una patologia evolutiva quale è la distrofia muscolare. Questo ci porta dritti dritti a vedere una faccenda che si chiama “intelligenza emotiva”.
Intelligenza emotiva: quando cuore e cervello vanno a braccetto
L’intelligenza emotiva è stata definita come la “capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente, quanto nelle relazioni sociali” (da Goleman, il tizio che l’ha studiata – vd. bibliografia). E’ composta da cinque elementi:
- La consapevolezza di sé – il comprendere noi stessi, i nostri punti di forza, i nostri punti deboli e come noi siamo percepiti dagli altri;
- L’autoregolazione – la capacità di controllare le nostre reazioni e di pensare prima di agire;
- La motivazione – la spinta interiore a raggiungere gli obiettivi preposti;
- L’empatia – l’abilità di comprendere i punti di vista e la realtà degli altri;
- La capacità di socializzazione – l’abilità di comunicare e relazionarsi con gli altri.
Dunque, una persona che ha sviluppato un buon livello di intelligenza emotiva è in grado di monitorare le proprie e le altrui emozioni, attraverso l’osservazione e l’empatia, di differenziarle e di usare tale informazione per guidare il proprio pensiero e le proprie azioni. Come ha scritto qualcuno, “l’intelligenza razionale è come il cervello di comando, mentre l’intelligenza emotiva è il cuore di comando”.
Durante il seminario ci siamo soffermati a lungo sugli aspetti emotivi implicati nel far fronte ad una patologia evolutiva come la DM. Perché andare a vedere l’aspetto delle emozioni riguardo a qualcosa che invece potrebbe essere visto da un punto di vista “pratico”, di strategie da attuare, comportamenti da avere? Il comportamento è sempre il risultato di un lavoro molto complesso svolto dal nostro cervello. Questo lavoro consiste (anche) nell’integrare i messaggi che i sensi trasmettono dall’esterno (temperatura, rumori, immagini…), quelli che provengono dall’interno del nostro corpo (come l’accelerazione del battito cardiaco quando abbiamo paura), quelli che abbiamo immagazzinato come ricordi (per esempio le esperienze del passato in circostanze simili) e quello che abbiamo imparato (come la traduzione dei segni dell’alfabeto in concetti). Tutto ciò produce un’interpretazione di ciò che stiamo vivendo. Quando a questa interpretazione si associa un’emozione possiamo mettere in atto un certo comportamento.
Per esempio, le onde sonore prodotte dal volo di un insetto vicino alle nostre orecchie in pieno giorno, più quello che abbiamo letto sulla zanzara tigre, più il ricordo di precedenti punture produrranno nel nostro cervello l’interpretazione cognitiva “zanzara tigre”. Se a questo concetto si assocerà un’emozione negativa noi faremo immediatamente qualcosa, come sventolare una mano o prendere l’insetticida, “senza nemmeno pensarci”. Che significa, in realtà, aver pensato in pochi millisecondi a moltissime cose, pur senza esserne consapevoli. L’intensità della nostra emozione negativa dipenderà, infatti, dalla reale nocività dell’insetto, dal nostro temperamento, ma anche dalla nostra personale esperienza con essa.
Quindi le nostre azioni, anche le più semplici, sono il frutto di come il nostro cervello elabora informazioni, percezioni, ragionamenti, ricordi, trasformando tutto ciò in una interpretazione associata ad uno stato d’animo che determina la nostra motivazione ad agire.
La piramide dei bisogni
La motivazione è quella spinta che ci porta a soddisfare una qualche necessità che abbiamo, un bisogno che sentiamo. Abbiamo avuto modo di vedere che i bisogni dell’uomo possono essere classificati secondo una gerarchia, (la cosiddetta piramide dei bisogni di Maslow, lo studioso che li ha ordinati): man mano che l’uomo soddisfa ognuno di questi bisogni, si presenta un bisogno di ordine superiore, con i relativi problemi che comporta il volerlo soddisfare.
Alla base della piramide si trovano i bisogni fisiologici: mangiare, bere, dormire, coprirsi, respirare, fare sesso.
Della seconda categoria fanno parte i bisogni relativi alla sicurezza quali il bisogno di un rifugio, di tranquillità, di protezione dai pericoli.
Nella terza categoria troviamo i bisogni relativi all’appartenenza, di cui fanno parte il desiderio di avere amicizie, di far parte di un gruppo, di amare ed essere amati. Alla domanda se questo gruppo appartenga alla classe dei bisogni indispensabili per la sopravvivenza o se sia secondario, non ci sono stati molti dubbi: ricevere cure d’amore è vitale per lo sviluppo di un individuo, soprattutto in senso deficitario, ossia se esse vengono a mancare, in particolar modo nei primi anni di vita; ma ognuno sa che il bisogno di vicinanza è intenso anche in età adulta, anche nelle sue espressioni corporee, come ci ha ricordato una delle partecipanti quando ha condiviso con il gruppo la sua più forte mancanza seguita alla disabilità, quella dell’impossibilità di poter abbracciare le persone a cui vuole bene.
Tornando alla nostra piramide, al quarto livello troviamo i bisogni relativi all’autostima, come quello di avere un’immagine positiva di se stessi ed in generale di apprezzarsi e di essere apprezzati dagli altri.
Nella quinta e ultima categoria troviamo i bisogni relativi alla realizzazione di sé: l’aspirazione a mettere in atto le proprie capacità, esprimere la propria creatività, oltrepassare i propri limiti.
I bisogni di natura superiore sono fondamentali quanto quelli primari, anche se non sono vitali. Ovviamente alcuni bisogni sono più urgenti di altri: quelli biologici sono i più pressanti, e se non sono soddisfatte le premesse di una categoria l’accesso a quella successiva diventa quasi impossibile. Eppure, è emerso da parte di una partecipante il paradosso nel notare come, se da una parte si sente realizzata dal punto di vista lavorativo e relazionale, dall’altra è proprio sui bisogni fisiologici che si trova in difficoltà, a causa della disabilità che implica una compromissione di molte funzioni vitali o della loro gestione.
E’ questa una delle principali scommesse della malattia evolutiva: rivedere, scendere a compromessi con i bisogni situati nei gradini più bassi della piramide, continuando a lottare per portare avanti quelli superiori, cosa che può avvenire soltanto grazie alle risorse che un individuo può tirare fuori nonostante la disabilità. Ciascuno di noi può raccogliere la sfida del proprio sviluppo, oppure rifiutarla. In questa visione, dietro ogni riuscita si trova una forte motivazione che ha prima ispirato e poi alimentato uno sforzo.
Che cos’è un’emozione
Prima di vedere da vicino quali sono le emozioni prevalenti implicate nel processo di consapevolezza e adattamento alla patologia evolutiva, vediamo che cos’è un’emozione.
L’etimologia (cioè la scienza che studia l’origine delle parole) ci dice che emozione è tutto ciò che ci fa muovere (dal latino “ex motus” cioè “mosso da”), quindi che induce un comportamento diverso rispetto a quello tenuto sino a quel momento. Le emozioni non hanno sede nel cuore, come un tempo si credeva, ma nel cervello e sono sempre collegate a determinati pensieri. Quindi è vero che le emozioni non possono essere controllate volontariamente nel loro insorgere, ma è anche vero che possono essere indotte da determinati pensieri e da essi anche modulate nella loro intensità, o addirittura regolate da tecniche quali il rilassamento, l’immaginazione guidata, l’ipnosi.
Conoscere le proprie emozioni non solo accresce la quota di piacere e di benessere connessa alla nostra esistenza, ma evita anche, soprattutto nel caso di emozioni spiacevoli, che queste restino non riconosciute, inespresse e inducano il rischio di esplosione successiva o si sedimentino nel corpo dando origine, per esempio, nel tempo, ad una serie di disturbi di origine psicosomatica. Sapere gestire le proprie emozioni comporta la possibilità di esprimerle nel modo e nel contesto appropriato: si tratta di vivere le proprie emozioni senza farsene travolgere. Si potrebbero paragonare le emozioni ad un fiume: se il suo letto è ben pulito e curato, se gli argini possono contenere bene eventuali piene o periodi di scarso afflusso, l’acqua può scorrere liberamente con tutta la sua forza, oppure con la sua delicatezza. Si tratta di realizzare un equilibrio tra gli estremi, tra l’alluvione emotiva e la siccità, l’inaridimento che, a monte, le nostre dighe dovrebbero essere in grado di evitare.
Le emozioni esistono perché non sarebbe possibile esaminare coscientemente situazioni molto complesse che richiedono una risposta rapida. Ad esempio, mettiamo che sono nel bosco a cercare funghi per il mio risottino di domenica, e ad un certo punto mi trovo proprio davanti ai piedi qualcosa che assomiglia a un serpente: “istintivamente” faccio un salto all’indietro per allontanarmene, con il cuore che ha aumentato sensibilmente la sua corsa e le gambe… Subito dopo tirerò un sospiro di sollievo nell’accorgermi che in realtà si trattava solo di un bel pezzo di corda verdognolo e sinuoso… ma la paura provata “istintivamente”, ben prima del pensiero “ma no, è soltanto una corda”, ha fatto sì che se ci fosse stato veramente un pericolo in agguato mi sarei potuta salvare, forse, solo grazie alla paura provata di istinto.
Dunque, la funzione delle emozioni è adattiva nel senso che fanno da filtro tra noi e il mondo, colorano in modo affettivo la percezione e, quando siamo con altri, la condivisione di un evento. Se dunque ciò che viviamo è filtrato da quello che proviamo, dalle sfumature emotive che vi associamo, possiamo concludere che non è solo rilevante ciò che capita all’individuo in termini di gravità, o intensità, ma il suo atteggiamento mentale nei confronti di tali eventi. Ognuno di noi ha degli occhiali metaforici sul naso, che possono farci vedere la stessa realtà con lenti diverse rispetto ad un’altra persona.
Come sono gli occhiali che ho sul naso?
Vediamo ora quali sono le emozioni con cui, verosimilmente, ha a che fare una persona che se la vede con una malattia cronica evolutiva. Il momento della presa di consapevolezza, peraltro, non è detto che sia necessariamente quello della comunicazione della diagnosi, ma può anche sorgere, se la persona in questione è stata colpita dalla disabilità da bambino, quando, giunta all’adolescenza, fa i conti in maniera più razionale con le conseguenze della patologia o, più avanti, ogni volta che la compromissione delle funzioni avanza.
Abbiamo visualizzato le diverse emozioni su una scala che rappresenta gli ipotetici stadi che vengono percorsi da un individuo che viene a conoscenza della propria patologia (in realtà sono stadi propri dei momenti fortemente critici della vita, in cui si subisce ad esempio un trauma o un lutto): shock, rifiuto, rabbia e aggressività, ribellione, dolore, vergogna, senso di colpa, depressione, accettazione. Peraltro, sono gli stessi step che hanno affrontato a loro volta i suoi genitori, soprattutto se la disabilità è insorta nell’infanzia, e anche dal modo in cui essi li hanno attraversati, e se sono giunti all’accettazione finale, dipenderanno l’atteggiamento e le modalità con cui il disabile stesso fronteggerà la sua condizione.
- All’inizio vi è lo shock dovuto all’inaspettata diagnosi, che può assumere anche le caratteristiche del trauma:
- la persona va incontro ad un lungo periodo d’incertezza, caratterizzato da un divario tra le aspettative che aveva e la realtà che gli si presenta, divario che potrà essere reso ancora più ampio da fattori sia psicologici sia fisici.
- Il rifiuto è la seconda fase tipica che caratterizza il recupero da una situazione critica.
- Equivale a nascondere temporaneamente la realtà e si può manifestare in modi diversi, per esempio, con forme evasive di non aderenza ai trattamenti e alle terapie.
- E’ basato più su un contesto emotivo che su fattori cognitivi.
- Può aumentare nel tempo con il progredire della disabilità.
- Se continuato, produce un effetto negativo sull’acquisizione di conoscenze e di abilità: per esempio, la persona può rinunciare al proprio diritto di avere informazioni sulla propria patologia, sugli esiti, sulle cure, sulla tutela dei propri diritti, come sulla possibilità di inserirsi in associazioni e gruppi in cui la condivisione dei propri vissuti può trovare forma e legittimazione.
- A esso può seguire la negazione della realtà.
- La negazione è seguita dalla colpevolizzazione, che a volte può degenerare in una reazione disadattiva; anche essa si presenta con manifestazioni diverse, può essere espressa come un senso di amarezza generalizzata verso un destino avverso, o come senso di fallimento. Può anche prendere la forma del senso di colpa verso i propri cari per le conseguenze che la disabilità comporta nella loro vita, e non solo nei confronti dei familiari più stretti. Una delle partecipanti ci ha parlato del suo dispiacere verso l’amica che regolarmente, ogni settimana, impiega parte del suo tempo per stare con lei, ma è stato interessante scoprire che poi, leggendo le cose “con occhiali diversi”, in realtà quel rapporto rappresenti uno scambio per entrambe, in termini di amicizia, condivisione, gratificazione, godere della compagnia dell’altra.
- Attraverso il dolore la persona inizia a prendere consapevolezza della situazione che sta vivendo. Può avere le caratteristiche di un vero e proprio lutto: è come se fosse scomparsa per sempre, e quindi morta, la persona che il disabile era fino a quel momento, e con essa le idee, i progetti, i sogni che le appartenevano.
Qualcuno durante il seminario non era d’accordo con questa espressione, poiché parlare di lutto era una parola troppo “forte”, che rimandava a qualcosa di molto doloroso, e che magari poteva essere preferibile parlare di un “problema”. In ogni caso, il dolore protratto nel tempo può arrivare ad assumere le caratteristiche della depressione. Eppure, anche questo “male oscuro” ha un suo significato, nella storia di un individuo. Vediamo in che modo. Davanti ad un pericolo, un essere vivente può avere una risposta di attacco (fight, “combattere”, nel momento in cui percepisce che la minaccia può essere affrontata, e la cui emozione di base è la rabbia), di fuga (flight, “volare via”, se il pericolo è vissuto come improbabile da contrastare, e la cui emozione di base è la paura) o di immobilità (freezing, “restare congelati”, come l’uccello che già nelle fauci del coccodrillo si finge morto, per poi “risorgere” e fuggire nel momento in cui il predatore molla la presa). L’emozione che sta sotto quest’ultimo tipo di strategia, se ricondotta nell’uomo, è appunto la tristezza. Nel momento in cui la persona realizza l’entità della perdita si ripiega in se stessa, chiudendosi agli altri, ma questa fase di stallo, di inattività, può darle la possibilità di ricaricarsi per trovare nuove forze per reagire.
- Patteggiamento, o pensiero magico: quando non si può fare nulla di razionale per modificare gli eventi, spesso si cerca rifugio nell’irrazionale. Il “patteggiamento” può costituire un rifugio di questo tipo. Un esempio di patteggiamento è promettere di ricominciare ad andare a Messa o di tornare a parlare con nostra madre, se le cose andranno bene. Questo è un tentativo di trovare una soluzione magica oppure il sacrificio adatto per placare gli dei adirati… Il patteggiamento può comportare la ricerca superstiziosa di segni e presagi, fornisce alla persona in crisi la sensazione breve e illusoria di avere la situazione sotto controllo, in quanto, così come il rifiuto, offre un temporaneo rifugio dalla realtà e rappresenta una tecnica di posticipazione che consente alla persona di affrontare la crisi nella sua interezza solo quando ha acquisito abbastanza forza per accettare la situazione ed adattarvisi.
Il trauma, il rifiuto, la rabbia e il patteggiamento pur essendo, in definitiva, dei modi improduttivi per affrontare la situazione, hanno una funzione temporanea utile. Essi, se non protratti troppo a lungo, danno all’individuo il tempo per assorbire l’evento traumatico in piccole dosi, più facilmente gestibili. Sono delle reazioni a cui ricorrono molte persone nel corso di una crisi, non solo di fronte ad una diagnosi drammatica, prima di accettare la situazione e di adattarvisi con un atteggiamento costruttivo. Alla contrattazione, se ha avuto esito positivo, segue l’accettazione.
- Accettazione e adattamento: l’accettazione, quando viene raggiunta, non è mai, né potrebbe essere, incondizionata e fissa, ma dovrà fare i conti con la mutevolezza degli eventi e il progredire di una malattia che implica sempre nuovi adattamenti. Può capitare dunque di ritornare sui gradini della scala precedenti, e potrà sembrare un’involuzione, una regressione, ma in realtà come abbiamo visto, sono emozioni che hanno comunque un significato adattivo per chi le prova, vale a dire un motivo di esserci, un loro “perché”, purché transitori. Ad esempio, la rabbia permette di fronteggiare il pericolo, di tirar fuori le unghie, anche se il rischio è di farlo sul bersaglio sbagliato, ad esempio direttamente su parenti, amici o figure professionali, quando magari l’aspetto da fronteggiare è un certo loro comportamento, e non la persona in toto.
I meccanismi di difesa
Unitamente agli aspetti emotivi “puri” sono stati affrontati anche alcuni dei meccanismi di difesa più tipici in cui una persona alle prese con una patologia evolutiva può incorrere. I meccanismi di difesa sono processi psicologici automatici e inconsci, operazioni che la nostra mente mette in atto per ridurre o sopprimere un aspetto che ci turba e che può mettere in pericolo il nostro equilibrio interno.
Possiamo trovarvi:
- negazione e diniego: la persona esclude dalla consapevolezza un certo aspetto della realtà, oppure ne rifiuta l’importanza emotiva. Si rivela attraverso frasi come “non è vero”, “ci deve essere un errore”, “si sono sbagliati ed è meglio andare da qualcun altro”, “tutto si rimetterà a posto”.
- Regressione: l’individuo ritorna a modi di funzionamento psicologico (nel comportamento o negli affetti) che sono propriamente caratteristici di stadi più antichi, specie degli anni infantili. Si può trovare ad esempio in quelle situazioni in cui il disabile ricerca cure ed attenzioni, nei confronti dei familiari o di chi lo assiste, con modalità di dipendenza e passività.
- Razionalizzazione: ci si dà delle spiegazioni logiche e ragionevoli di un comportamento irrazionale che è effetto di desideri inaccettabili inconsci o delle difese utilizzate per far fronte a tali desideri. Dare una spiegazione razionale e logica alle cose, e quindi ai propri comportamenti, è uno dei bisogni dell’uomo. Le persone tendono a dare una giustificazione razionale ai loro comportamenti anche quando questi hanno motivazioni diverse e inconsce. Questo succede anche quando le persone devono giustificare comportamenti non proprio logici conseguenti all’uso di altri meccanismi di difesa.
Indicazioni pratiche
In base agli aspetti problematici individuati sono stati visti e discussi alcuni suggerimenti pratici.
- Contro la monoidentità, ossia la tendenza a identificare la persona con patologia evolutiva con la malattia stessa, dunque come soltanto un malato bisognoso di cure e assistenza:
- reperire nuove o vecchie forme di attività, professionalità, forme di aiuto agli altri. In tal modo viene favorita una ri-negoziazione dei ruoli, (quindi dell’identità), in cui a quello di malato non autosufficiente si affianca un ruolo più attivo e promotore di benessere nei confronti degli altri.
- Esercizio: un atto di gentilezza al dì rivolto agli altri (festivi esclusi!).
Contro i momenti depressivi.
Gli psicofarmaci possono essere utili e talvolta necessari, nel caso di una depressione clinicamente significativa, ma spesso non sono sufficienti al raggiungimento del benessere psicologico e mentale, se non accompagnati e sostenuti dalla volontà di reagire, da strategie per il miglioramento della qualità di vita o, se necessario, dall’aiuto di uno psicoterapeuta. Può essere utile:
- Prendere consapevolezza della necessità del Principio di Autodeterminazione, inteso come “rafforzamento della capacità, da parte della persona, di volere e saper scegliere, oltre ad assumere progressivamente la responsabilità delle conseguenze che tali scelte comportano” (da “Vita indipendente per tutti”, di G. Griffo); questa ottica va a contrastare:
- da una parte il sentimento di impotenza e di passività sperimentato nelle occasioni di vita quotidiana,
- dall’altra uno stile di attribuzione esterno, ossia la tendenza ad assegnare la responsabilità delle proprie sorti e in ultima istanza del proprio benessere a tutto ciò che è altro da noi: i familiari, il personale medico, il destino, la sfortuna, Dio…
- Rafforzare il Pensiero positivo, a partire da:
- riconoscimento emozionale e automonitoraggio (già visto nell’intelligenza emotiva).
- Narrazione dei propri vissuti, a sé stessi o agli altri, in forma orale o scritta, per esempio attraverso un diario. E’ questa un’attività che può avere una valenza terapeutica, come ci mostrano i numerosi libri-testimonianza scritti da persone disabili o da loro familiari.
- Esercizio 1: appuntarsi su un quaderno 3 gocce di felicità per ogni giorno trascorso. Uno dei meccanismi che favoriscono un atteggiamento negativo verso la vita e il perpetuarsi dei “momenti bui” è l’attenzione selettiva verso gli eventi e i particolari negativi e spiacevoli della giornata (e quindi della propria vita…); nel momento in cui la persona si dà il compito di ricercare i momenti della giornata in cui ha sperimentato sensazioni di benessere (le gocce di felicità) dovrà porvi quell’attenzione che prima era concentrata prevalentemente su aspetti spiacevoli.
- Esercizio 2: lista delle attività attuabili nei momenti critici (la persona a cui telefonare, il DVD da rivedere, le canzoni da ascoltare, il libro del comico preferito…), che possono essere fonte di sollievo, gratificazione o distrazione.
Contro l’autostima sotto le ruote:
Iniezioni di autoefficacia, intesa come la “fiducia che una persona ripone nella propria capacità di affrontare un compito specifico” (Bandura):
- Definizione di obiettivi
- a Breve Termine e a Lungo Termine, che possono aumentare il proprio senso di autoefficacia purché siano:
- concreti (“recuperare una vecchia amicizia” piuttosto che “non sentirmi mai più solo”)
- realistici
- a Breve Termine e a Lungo Termine, che possono aumentare il proprio senso di autoefficacia purché siano:
- Potenza del modellamento, ossia cercare dei punti di riferimento, dei modelli appunto in persone (o “personaggi”) che con il loro modo di approcciarsi alla vita e alle sue sfide dimostrano un atteggiamento costruttivamente combattivo nei confronti della malattia.
- Richiamo mnemonico di esperienze positive precedenti: il ricordarsi di “quella volta che ce l’ho fatta, che ho superato quel momento”, seppur lontane nel tempo, può richiamare alla mente sia le strategie attuate in quell’occasione, sia le sensazioni piacevoli ad essa legate e quindi spronare all’azione.
Tali indicazioni non hanno la pretesa di essere ricette facili o panacee magiche, ma sono solo la raccolta di esperienze e osservazioni condotte da chi, in qualche modo o a diverso titolo, ha a che fare con i diversi tipi di disagio e sofferenza.
E’ stato interessante vedere che alcuni dei partecipanti avevano già spontaneamente messo in atto qualcuna delle strategie suggerite, o che ne avevano trovate di simili. Soprattutto, gli occhiali che ho sul naso mi portano a ricordare che, nelle ore trascorse insieme, quello che si respirava era un’aria di fiducia non ingenua ma dotata di senso critico, un’aria di apertura disponibile, di voglia di condivisione e di mettersi in gioco, percezioni che lasciano addosso quell’arricchimento che solo le esperienze dense di significato umano possono consegnare, e la cui naturale conseguenza, per quanto banale, non può che essere il bisogno di dire “grazie” a tutti coloro che hanno permesso che questo avvenisse.
Per chi ha voglia di leggere un po’… (bibliografia)
“Mille fili mi legano qui”, S. Bonino (Laterza)
“Intelligenza emotiva”, D. Goleman (Mondadori)
“Imparare l’ottimismo”, M. Seligman (Giunti)
“Autostima, assertività e atteggiamento positivo”, M. Giannantonio (Ecomind)
“La vita è già difficile, perché complicarsela?”, A. Lazarus (Positive Press)
“Istruzioni per rendersi infelici”, P. Watzlawick (Feltrinelli)
“La forza d’animo”, O. Ferraris (Rizzoli)