Cronaca di un evento

Immagini a confronto

di Gemma Andreoli di Sovico

Su proposta del Gruppo donne della UILDM mi sono occupata, insieme a Gaia Valmarin del Seminario “Stereotipo e Handicap. Percezioni ed immagini della persona disabile”, tenutosi nell’ambito della XLIII Assemblea nazionale UILDM 2006 a Marina di Varcaturo.

Il seminario è stato condotto a due voci in una prima parte espositiva dove sono stati presentati alcuni personali contributi e in una seconda parte centrata su di un coinvolgimento attivo dei partecipanti attraverso un lavoro in sottogruppi. Con la prima parte si è introdotto, procedendo per gradi, il tema centrale del seminario “Le rappresentazioni sociali della persona disabile” trattando dapprima i temi del pregiudizio e degli stereotipi in generale e accennando alla questione delle definizioni e delle classificazioni riguardanti la disabilità. Nella seconda parte, ai partecipanti suddivisi in due gruppi, è stata data la consegna di mettere a fuoco alcune immagini attingendo alla loro esperienza quotidiana, per poi condividerle insieme all’altro gruppo con l’ausilio di un cartellone e successivamente di una drammatizzazione. L’intenzione era quella di introdurre l’argomento per poi giungere ad una prima messa a fuoco del tema senza condizionamenti sui contenuti, per procedere poi, dopo una sintesi di restituzione su quanto emerso, ad un’ulteriore messa a fuoco attraverso un contributo finale.

Come spesso accade, solamente in parte siamo riusciti a rispettare l’ordine che ci eravamo prefissate: il piacere di essere in gruppo e la spinta a raccontarsi sono stati così forti da averci fatto decidere nella fase conclusiva del seminario, di dare più spazio al confronto del gruppo, per poi concludere con una breve sintesi.

Il tema forte del seminario è stato l’incontro con l’altro e la voglia di incontrarsi per costruire un rapporto senza ipocrisie “…siamo noi i disabili!… E’ inutile dire che tutti siamo disabili….”; un rapporto che chiede a sé stessi e agli altri di essere riconosciuti nella propria interezza e di non essere considerati come pezzi. Il lavoro ha infatti messo in evidenza diverse immagini dove la persona disabile è spesso pensata come “… incapace di intendere e di volere… senza alcuna preoccupazione se non mangiare e dormire… senza sessualità… impossibilitata ad essere madre, moglie…”, come se non fosse possibile alcun radicamento nel proprio corpo e nella vita se non parziale, perché oscurato dalla malattia e dal bisogno di dipendenza che rendono impossibile pensare che la persona disabile possa essere anche “accompagnatore” e non solamente “essere accompagnato ed accudito”.

L’immagine che sembra ritornare è quella di una persona privata di una grossa parte di sé, in generale percepita come “.. tutta buona..”, senza, per così dire, cattivi pensieri, che induce l’altro alla commiserazione, oppure, all’opposto come piena di rabbia “…acida…”.

In modi diversi, queste immagini hanno raccontato la complessità dell’incontro, l’impaccio e le paure reciproche che conducono ognuno di noi a fare appello alle esperienze passate, ai linguaggi comuni e ai pregiudizi. Il pregiudizio appare come una sorta di ancora di salvezza per fare fronte al nuovo, al rapporto con l’altro e laddove il non conosciuto ci spaventa troppo, la nostra chiusura e la nostra rigidità possono condurci all’evitamento e al rifiuto.

Nelle immagini scelte per la drammatizzazione, in entrambi i casi è stato rappresentato un incontro con le difficoltà e le paure che reciprocamente possono essere attivate.

Nella prima immagine una coppia, una donna in carrozzina con il marito, entrano in un negozio di biancheria intima femminile per acquistare un tanga rosa.

La donna chiede alla commessa di vedere il capo; la commessa, imbarazzata e colta di sorpresa non le risponde e si rivolge all’uomo. La donna disabile cerca di vedere il tanga per decidere sull’acquisto ma la commessa evita di incontrarla, orientandosi sempre verso il marito, finché non è spinta a dirle che è lei la persona interessata all’acquisto.

La commessa ancora meravigliata e imbarazzata dalla richiesta con insistenza continua a rivolgersi all’uomo, finché quest’ultimo le dice di rivolgersi alla moglie perché il tanga non è per lui. Nonostante i tentativi di entrambi, la commessa continua però a non rivolgersi alla donna in carrozzina, finché i due non si infastidiscono e decidono di andarsene dal negozio.

Di questa immagine mi colpiscono due aspetti: il primo riguarda il tanga rosa, il secondo l’ostinazione della commessa. Il tanga rosa rappresenta un elemento femminile che rimanda alla sessualità, alla cura di sé, alla frivolezza ed al piacere: difficilmente tutto questo è attribuito ad una donna disabile. La commessa si ostina a non rivolgersi alla donna disabile come se non fosse possibile per lei riconoscere che nella carrozzina c’è una donna che indosserà quel tanga: è proprio in questo mancato orientamento verso l’altro che è rappresentato il non riconoscimento. In questa immagine la paura diventa evitamento e l’ostinazione rappresenta la chiusura e l’impossibilità all’incontro.

Nella seconda immagine una ragazza in carrozzina parla con il suo ragazzo (interpretato da una ragazza) seduto di fronte a lei. Di lì a poco arriva dietro di loro una ragazza che inizia a guardarli e a pensare tra sé: “… poverina!… come è bravo quel ragazzo!…che pazienza che ha!…sarà un accompagnatore?..”.

La coppia poi si saluta con un bacio ed il ragazzo esce di scena. Poco dopo, la ragazza disabile, dice all’altra “…senti, che mi aiuti?….” La ragazza è esitante, impaurita, rimane distante e con titubanza le chiede se il ragazzo che c’era prima era il fratello. La ragazza disabile, dal canto suo meravigliata, le risponde dicendo che quel ragazzo era il suo fidanzato, poi le dice: “…mi puoi spostare il piede?…”. La ragazza ormai all’apice dell’imbarazzo le chiede “…dov’è il piede?…”.

La ragazza in carrozzina, attonita, le risponde dopo una certa esitazione, indicandole il proprio piede. A questo punto l’altra si affretta a dire “…si che ti aiuto!… sono cattolica!….” Ma l’impaccio è ancora tanto e la spinge a dire: “… ma dov’è il tuo volontario?…” L’altra allora risponde: “… ma io vado in giro da sola!…”. Finché l’immagine non si chiude con la ragazza disabile che dice “…adesso sicuramente andrà in paradiso!”.

In questa immagine era in primo piano la ragazza comparsa in scena per ultima, dapprima in una posizione di osservazione e successivamente a diretto confronto con la ragazza disabile: qui è stato rappresentato un primo incontro con la disabilità da parte di una persona che non aveva alcuna esperienza, mettendo in evidenza i pensieri, i tentennamenti ed i tentativi di evitare l’imbarazzo a causa delle paure che inevitabilmente vengono attivate durante l’incontro.

Il gruppo ha infatti discusso su questo punto, confrontandosi sulle paure che all’inizio molti di loro, operatori o volontari hanno provato. Ad esempio è emersa la paura di fare male all’altro, attraverso una movimentazione mai fatta prima, in un momento dove, a causa della non conoscenza, prevaleva l’idea di una fragilità dell’altro e il timore di fare male, di mettere in difficoltà, anziché aiutare. Un altro aspetto è il buonismo: un pensiero molto diffuso, su cui il gruppo è più volte ritornato, è l’idea che spinge a considerare chi si occupa di disabilità o chi convive con la disabilità come “buono”. Questa idea mi sembra essere l’immagine complementare del “disabile buono”. Seguendo questa logica chi non si occupa di disabilità è cattivo e viceversa non esiste un disabile cattivo. Dovremmo chiederci a questo punto che cosa intendiamo per buono e cattivo, come potremmo interrogarci sul rimando fatto in quest’ultima immagine sulla spinta all’aiuto connotata come cattolica. Ognuno di noi probabilmente darebbe risposte diverse a queste domande e forse qualcuno li considererebbe concetti relativi, facendo prevalere la soggettività della risposta. Indipendentemente da queste considerazioni, mi sembra ragionevole pensare che nessuno di noi può “essere” e quindi “essere pensato” come tutto buono o tutto cattivo. Un altro aspetto di questa immagine che mi colpisce è rappresentato da una delle domande fatte alla ragazza disabile “… dov’è il piede?..”. Questa domanda allude al contatto ed al rapporto con il corpo. Questa immagine sembra dirci che il corpo della persona disabile tende a non essere visto, che difficilmente viene trovato e con esso il contatto tra noi e l’altro. Il corpo è ciò che ci permette di essere nel mondo, di incarnarci, dando concretezza e materia alla nostra esistenza, ci permette di sentire, è la sede delle nostre emozioni, del nostro dolore così come della nostra gioia. Da questo punto di vista, vedere il corpo dell’altro vuol dire poter assumere ed ascoltare anche ciò che l’altro sente e che potrebbe sentire e con esso ciò che noi sentiamo in rapporto al sentire dell’altro. E questo può fare paura. Così come può far paura alla persona disabile chiedere aiuto: come vivrà l’altro il mio bisogno di dipendenza? Che uso ne farà? Quanto l’altro mi permetterà di avere una mia volontà? Tutto questo sembra raccontare la paura di perdersi, in un rapporto che tende ad essere vissuto come minaccioso per l’individualità: spostare il piede di un altro, laddove solitamente noi spostiamo il nostro corpo in modo volontario, significa assumersi un grosso potere sull’altro. In gioco sembra essere la questione del limite, ovvero la necessità di trovare un confine che metta al riparo entrambi ma, come tutti i confini, c’è sempre la possibilità che vengano oltrepassati. Un altro aspetto di questa immagine è l’ironia ed il sarcasmo, emersi in modo molto forte durante la drammatizzazione, in particolare attraverso i costanti tentativi della ragazza di evitare il confronto, attraverso l’impaccio, la distanza fisica, infine facendo appello alla possibile presenza del volontario ma anche attraverso lo stupore misto a fastidio della ragazza disabile di fronte alle implicite attribuzioni su di sé, per nulla gradite e, evidentemente, ormai più che conosciute. Questa ilarità mi sembra abbia cercato di esorcizzare proprio la complessità dell’incontro con l’altro ed i sentimenti che esso evoca.

Il gruppo, nella discussione successiva, dopo aver parlato dei pregiudizi incontrati nelle diverse esperienze e dopo averli drammatizzati, è come se si fosse liberato da qualcosa, giungendo ad una riflessione su sé stesso, animando il pensiero che non solamente gli altri hanno dei pregiudizi sulle persone disabili ma a volte anche le persone disabili sono portatrici di pregiudizi nei confronti dell’altro sia esso una persona disabile oppure no. Il gruppo ha iniziato a togliere i veli su se stesso, ragionando sul fatto che ognuno di noi può portare nella relazione dei pregiudizi. Allo stesso tempo ha cambiato posizione nei confronti dell’altro e di sé stesso: non è solamente l’altro che fa un’opera di attribuzione e non mi riconosce, ma anche io a volte faccio la stessa cosa nei confronti dell’altro e forse anche di me stesso. Una volta fatto questo è diventato possibile pensare ai motivi che spingono l’altro al pregiudizio: la paura di ciò che non si conosce. Come diretta conseguenza è diventato possibile pensare in modo circolare: anche io a volte, ho paura di ciò che non conosco.

Le impressioni più forti che porto con me di questa esperienza sono la voglia ed il bisogno di incontrarsi, espressi in modo forte da tutti attraverso una piacevole e a tratti giocosa partecipazione. Questo è uno degli stati d’animo che mi sembra si sia realizzato in uno spazio sentito come libero da condizionamenti e da proiezioni reciproche che sappiamo essere inevitabili, ma che una volta svelati possono lasciare il passo alla conoscenza reciproca ed al gioco. E questa voglia di gioco è venuta fuori una volta liberati tutti dalle strettoie dell’ascolto degli interventi che hanno caratterizzato i primi momenti del seminario. Infatti, se da un lato la prima parte mi sembra abbia un po’ appesantito l’ascolto, da un altro punto di vista penso che forse ci ha aiutato a lasciare andare proprio quei pregiudizi e quelle immagini di cui parlavamo, come se ci fossimo detti che potevamo tutti farne a meno. E questo ha contributo a liberare la voglia di raccontarsi e di incontrarsi su esperienze comuni che hanno a che fare con il faticoso cammino del vivere. Queste esperienze hanno a che fare con la questione di come gli altri mi vedono, ovvero come io stessa mi vedo e come tutto questo, in un gioco di immagini e di proiezioni reciproche, si traduce nel rapporto con l’altro.

Un’immagine portata dal gruppo è stata quella di una bambina disabile che non potendo saltare la corda con gli altri bambini, trova il modo per esserci, girando la corda, una cosa che aveva capito che nessuno voleva fare. Un modo “…per venirsi incontro…” non tirandosi indietro da questo confronto, sostenendone la fatica e rimanendo nel gioco. Mi sembra che il gioco di saltare la corda può rappresentare il rapporto con l’altro: l’importante è giocare e rimanere nel gioco, non fermasi ai pregiudizi, dando a se stessi e agli altri una possibilità per conoscersi, venendosi reciprocamente incontro.

Di seguito riporto il contributo finale che volevo condividere con il gruppo durante il seminario, accennando ad un possibile antidoto per tutti i pregiudizi “non dare mai nulla per scontato”, con la speranza che possa servire ancora una volta a riflettere, per far sì che ognuno di noi possa trovare un modo per rimanere nel gioco. A questo proposito, è importante leggere questo breve contributo, tenendo presente la complessità della relazione stessa, altrimenti il rischio che corriamo è di puntare il dito, andando unicamente a sollevare delle critiche. Ogni situazione va contestualizzata, sono sempre molti e complessi i motivi che determinano la scelta di un atteggiamento piuttosto che un altro. Ciò che in generale possiamo dire è che solamente il confronto e l’apertura reale all’altro, ovvero ad altri punti di vista, ad altre conoscenze ed altre esperienze, può contrastare i pregiudizi. Un po’ come il gruppo del seminario, girando e saltando la corda, alla fine si è detto.

Illustrazione di Ernesto Paganoni

Alcune immagini

Le persone disabili sono spesso pensate e definite come “sfortunate, angeli, senza altri bisogni se non quelli di assistenza e di accudimento fisico, incapaci di autonomia, prive di una propria intenzionalità, di desideri, di una sessualità, di una propria emotività o all’opposto, preda dei loro impulsi e delle loro emozioni”. E’ come se nell’immaginario delle persone, la presenza di una disabilità, indipendentemente dalle sue caratteristiche, fosse vissuta come totalizzante, giungendo ad oscurare completamente la percezione della persona e dell’individuo. Queste idee condizionano pesantemente la qualità della vita delle persone con disabilità ed il loro uso consueto e quotidiano, contribuisce alla riproduzione ed alla diffusione di queste attribuzioni, che altro non sono che pregiudizi. I pregiudizi non condizionano solamente la nostra percezione ed il nostro linguaggio ma anche il nostro modo di entrare in relazione con l’altro, le nostre scelte e le nostre azioni.

Pensiamo, ad esempio, ad un contesto scolastico e a quanto può incidere sulla partecipazione alle attività scolastiche di un bambino/a, l’immagine che gli insegnanti hanno della persona disabile, la quale porta sempre con sé anche una precisa idea (e prassi) della integrazione scolastica. Il bambino disabile può essere considerato come unicamente bisognoso di assistenza, oppure come portatore di potenzialità individuali da sviluppare. In questi casi gli atteggiamenti e le intenzionalità educative saranno molto diverse: nel primo caso, l’assenza di obiettivi didattici suffragata dall’idea che non possono realizzarsi apprendimenti e cambiamenti, potranno condurre all’isolamento ed all’esclusione della persona disabile dalla partecipazione alle attività didattiche, da alcune pratiche educative, giungendo anche a condizionare le interazioni sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo. Accanto a questo pregiudizio spesso se ne affianca un altro: l’idea che l’integrazione scolastica si realizza unicamente con la presenza a scuola, perché si ritiene che la cosa importante è che la persona disabile stia insieme agli altri, che sia inserita. Diversamente, la persona disabile può essere considerata come portatrice di risorse e potenzialità da sviluppare: in questo caso la persona potrà fare l’esperienza della partecipazione e della condivisione alle attività scolastiche, maturando apprendimenti e crescite sulla base delle sue reali possibilità. Questo presuppone una reale conoscenza della persona disabile e pratiche educative e didattiche che tengano conto anche della necessità di un intervento centrato sulle caratteristiche individuali.

Pensiamo anche al contesto familiare ed allo stile educativo dei genitori: spesso, lo stile educativo si caratterizza come iperprotettivo, ovvero prevalgono le ansie e le paure e si tende a proteggere troppo l’altro, sollevandolo dal confronto con la realtà e con i propri limiti; in questi casi i comportamenti di cura e di sostegno diventano eccessivi: la persona disabile, ad esempio, può essere aiutata anche in quelle situazioni in cui potrebbe fare da sola, imboccandola anche quando può usare le posate e mangiare, aiutata a vestirsi, lavarsi, anche se può farlo autonomamente, aiutata a fare i compiti anche quando possiede le capacità e le abilità necessarie, eccetera. La conseguenza di questi atteggiamenti sarà quella che la persona difficilmente riuscirà a sviluppare una buona immagine di sé, piuttosto sarà interiorizzata l’idea di una propria immutabilità e di una caratterizzazione di sé in negativo come incapace, come impossibilitato nella azioni quotidiane e da un punto di vista più profondo, impossibilitato alla crescita, alla sviluppo ed al cambiamento e nei casi peggiori ad un “non poter essere”. Tutto questo influenzerà profondamente il suo sviluppo ed i suoi rapporti con gli altri. In altri casi lo stile educativo si può caratterizzare per una povertà di interazione: questo accade specialmente nei casi in cui è presente un ritardo cognitivo e quando si tende a pensare “tanto non capisce”, anche se sono presenti delle abilità e comunque delle potenzialità e risorse per il futuro sviluppo. Questa idea può condurre le persone a rivolgersi e a relazionarsi alla persona disabile in misura ridottissima, a fare uno scarso uso del linguaggio e a far “subire” all’altro le più piccole azioni quotidiane, sulla base dell’idea che non sia in grado di avere una volontà, di ascoltare, di prestare attenzione, di comprendere, di sentire emozioni: atteggiamenti che tendono a passivizzare la persona disabile e a confermargli una immagine di sé, anche in questo caso, in negativo. Un altro stile di entrare in relazione può invece caratterizzarsi per il fatto di essere iperstimolante: in questo caso, alla persona disabile può essere chiesto di essere sempre impegnata, attraverso un atteggiamento costantemente richiedente ed orientato in senso riabilitativo, la persona può essere indotta ad una continua attività, con il risultato di essere privata dei necessari momenti di “non attività”, di riposo, di gioco, di silenzio, ecc….; in altri casi, l’atteggiamento educativo può proporre in modo reiterato alla persona disabile dei compiti troppo complessi rispetto alle sue reali possibilità. In ogni caso, lo sviluppo della persona ne sarà fortemente condizionato ed il risultato sarà quasi sempre la delusione, la rabbia, la frustrazione ed il senso di inferiorità, nonché il senso di colpa per non aver rispecchiato le attese dell’altro e da parte dei referenti educativi, il senso di colpa legato al vissuto di non aver fatto abbastanza.

Questi atteggiamenti non caratterizzano unicamente i genitori e/o i familiari, ma possono rintracciarsi anche in tutte le persone che entrano in relazione con le persone disabili. Potremmo pensare anche agli altri contesti, ad es. alle professioni basate sulla relazione di aiuto, alle implicazioni rispetto alle diverse intenzionalità, sanitarie, educative, quelle presenti nei programmi riabilitativi, nell’assistenza, nella progettazione educativa, nella progettazione dei servizi rivolti alla persona in generale, ai programmi di inserimento lavorativo e sociale, ma anche alle scelte politiche.

L’altro inesistente

Spesso osserviamo che di fronte ad una persona disabile, specialmente se con un ritardo mentale grave, le persone sono spinte a dare per scontato che quella persona non abbia delle personali motivazioni, interessi, sentimenti, una propria volontà e delle intenzioni. In alcuni casi le persone tendono a non relazionarsi a loro comportandosi come se non fossero presenti in quel momento: ad esempio parlando di lui/lei con altre persone in sua presenza. Ciò che viene meno in questi casi è la possibilità di vedere nell’altro “una persona” oltre che quella specifica persona. In altre occasioni possiamo vedere, ad es. in un bar, laddove c’è una persona disabile su di una carrozzina, con un accompagnatore, come le persone tendono a parlare con l’accompagnatore, anche nei casi in cui non c’è nessun impedimento tale da legittimare questo comportamento. Spostarsi su due ruote anziché su due gambe conduce all’equazione che la persona non é in grado di sostenere un confronto con gli altri. Questi esempi tratti dall’esperienza comune dimostrano come si possa insinuare un pregiudizio e come possa agire. Volendo cercare una definizione potremmo parlare di una modalità di rapportarsi all’altro come persona inesistente.

L’altro come eterno bambino

Un altro pregiudizio che facilmente possiamo incontrare nell’esperienza comune è quello per cui la persona disabile è pensata e trattata come un “eterno infante”: qui è come se il tempo venisse fermato e con esso i possibili cambiamenti e gli sviluppi che porta sempre con sé. Nonostante l’evidenza, l’altro continua ad essere visto come un bambino/a, se non come un neonato, ad un livello, ad esempio, di autonomia, ma anche con dei bisogni che non sono quelli attuali e reali, ma che ormai appartengono al passato. Il risultato è che così facendo noi determiniamo l’arresto dello sviluppo: in una relazione d’aiuto, ad esempio, io sarò portato a non stimolare l’altro, a non chiedergli niente, a non chiedergli di utilizzare le competenze che già possiede o che potrebbe possedere e sarò spinto a “sostituirmi” a lui/lei.

L’altro senza potenzialità

Un altro importante pregiudizio è quello che fa ritenere la persona disabile senza risorse o senza potenzialità, determinando l’idea che non potrà sviluppare nessun apprendimento, neanche di tipo semplice, oppure nessun miglioramento. E’ come se dominassero una cultura del non intervento ed un fatalismo tale per cui il gioco non vale la candela. L’atteggiamento che invece dovrebbe caratterizzarci è quello di non dare nulla per scontato e di vedere se ci sono delle possibilità e quali sono. Pensiamo a quanto può determinare un tale atteggiamento specialmente nelle persone in età evolutiva, per cui non soltanto si bruciano delle potenzialità, ma si brucia anche l’opportunità di un intervento che potrebbe godere di una maggiore plasticità. In ultima analisi spesso si è responsabili della perdita (nel tempo) di gradi di autonomia più o meno consistenti. Ad esempio la persona disabile che non si veste da sola, non si allaccia le scarpe, non si fa il bagno da sola, eccetera. Qui agiscono anche altri fattori: non solo a volte si crede in modo del tutto arbitrario che certe capacità non possano essere sviluppate, ma quasi sempre anche i tempi soggettivi, legati, ad esempio, agli impegni lavorativi, spingono (familiare, operatore, docente, ecc..) a fare queste attività al posto della persona.

Disabilità fisica = disabilità mentale

Spesso ci accade di osservare che la “visibilità” della disabilità fa sì che la disabilità venga estesa anche a funzioni non immediatamente visibili; si assiste a questa equazione: disabilità fisica = disabilità mentale. Nella nostra esperienza possiamo facilmente incontrare questo pregiudizio in quei casi in cui la persona manifesta una grossa compromissione fisica. In questi casi c’è la tendenza a dare per scontato che ci sia una uguale compromissione anche a livello mentale. Quello che si determina è una sorta di automatismo il più delle volte inconsapevole per cui se c’è una compromissione, tutto è compromesso, ovvero tutte le funzioni sono compromesse.

Passività e Iperattività

Nel linguaggio e nel pensiero comune si rintracciano facilmente due stereotipi: la persona disabile è considerata come una persona passiva e inattiva, fondamentalmente depressa o al contrario come una persona iperattiva ovvero eccessivamente reattiva. Nel primo la persona è rappresentata come emotivamente ritirata dal contesto sociale, comunque incapace di qualsivoglia investimento o impegno sociale, senza interessi e, se questi ci sono, riguardano solamente la sua persona ed il suo ambiente di vita più immediato. Potremmo visualizzare questa immagine pensando la persona sempre a casa, chiusa in sé stessa, che da un punto di vista psicologico subisce completamente il suo bisogno di dipendenza, sostanzialmente inattiva o passiva, se non sollecitata dall’esterno. Nel secondo caso la persona è rappresentata come iperattiva, sempre impegnata all’esterno, che lavora e che è spinta da un forte bisogno di riuscita e di affermazione sociale; una persona che rivendica e pretende i suoi diritti con una modalità tale per cui tutto sembra essergli dovuto. Nel primo caso il vissuto personale della disabilità è tale da schiacciare la persona e da svuotarla di ogni vitalità; nel secondo caso la persona risponde alla sua condizione con una modalità tesa primariamente alla non accettazione. Queste due immagini sembrano rappresentare due modi estremi di vivere la disabilità: una posizione interna più realistica ci dovrebbe far pensare che ci sono infiniti modi di vivere la propria disabilità ed il proprio bisogno di dipendenza, che sarà diverso a seconda delle persone, delle situazioni di vita e dei diversi momenti esistenziali.

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