Preconcetti, no grazie!
di Gaia Valmarin
Tanto materiale si è letto e consultato per preparare questo seminario; attentamente abbiamo spulciato le pubblicazioni di sociologi, psicologi e psicanalisti: ognuno di loro dava una spiegazione sull’origine e su ciò che fa scattare lo stereotipo e il pregiudizio. Dipenderà dall’insicurezza primordiale che ognuno di noi si porta dentro, o dalla necessità che il gruppo dominante ha di tenere sotto controllo i soggetti che in qualche modo possono scardinare gli equilibri e le tradizioni di un’entità sociale, sia essa piccola o grande? Guardando, però, in noi e nella nostra quotidianità scopriamo quanto, quello che può sembrare solo materiale per saggistica, in realtà influenzi veramente la nostra esistenza. Chi di noi non ha in mente degli stereotipi, dei luoghi comuni ai quali si vuole sfuggire o perché no, si vorrebbe appartenere? “Tutte le ragazze bionde e carine trovano più facilmente un lavoro”, ma quante disoccupate ci sono in Italia? “Tutti i gay sono sensibili e portati per il mondo artistico o assistenziale”. Ma quanti ne conosciamo in realtà? Le persone disabili hanno una bontà innata e quando commettono qualche azione “non degna”, in realtà fanno solo capricci; ci avete mai lavorato insieme?
Prendendo spunto da una situazione personale vi propongo uno stereotipo formato famiglia: non potendo essere una figlia o una nipote birichina e scalmanata ero sicuramente, senza portare le prove, la bambina più intelligente, paziente e diligente fra tutti i nipoti e i cugini. La mia carrozzina era anche la mia aureola. Oppure si è portati a pensare che chi lavora per le Onlus sia necessariamente altruista e pregno di spirito caritatevole, ma infiniti esempi ci portano a tutt’altre dimostrazioni.
E i pregiudizi? Cosa vogliamo dire a tal proposito? Spontaneamente verrebbe da affermare che nessuno di noi ne ha, che mai e poi mai avremmo giudizi negativi su una tal persona senza averne sperimentato la compagnia e l’operato; anzi siamo noi disabili ad essere sempre e soggetti a pregiudizi: troppo deboli, facilmente manipolabili, immaturi, egoisti e parassiti, e sicuramente vittime!
Scavando nei discorsi e nei racconti viene fuori che gli stessi disabili, essendo in fondo esseri umani, hanno a loro volta un’infinita quantità di pregiudizi, sia sui normodotati, sia nei confronti degli altri portatori di handicap. Assurdamente più pensiamo di essere colpiti dai pregiudizi e più essi prendono realtà: “i miei colleghi pensano che io non so lavorare perché sono disabile”, “i miei superiori non mi affidano ruoli di comando perché dipendo sempre dall’aiuto degli altri”, “gli amici mi portano in vacanza solo per fare un piacere a me”. Ovviamente molti di questi pensieri rispecchiano delle realtà oggettive, ma tante altre volte sono gli stessi disabili a provocare una tale reazione comportandosi per primi in modo forzato; di conseguenza si diventa assenteisti, pigri, insicuri, e soprattutto talmente “lagnosi” che chi vorrebbe venire in vacanza con noi? Si diceva che neanche “colleghi” nella disabilità sfuggono ai preconcetti da parte nostra: incontriamo qualcuno con la nostra patologia e subito nella nostra mente valutiamo “lui sta peggio, io non sono ridotto così”; “un fidanzato disabile! Ho già tanti problemi io!” e se al ristorante, in vacanza o per strada incontriamo altri disabili e per giunta con ritardo [mentale (n.d.r.)] ci teniamo a distanza: “la gente dovesse pensare che faccio parte di un istituto o di un soggiorno estivo, io sono un’altra cosa”.
In conclusione gli stereotipi e i pregiudizi fanno parte di quella zona atavica legata al nostro spirito di sopravvivenza; non conosciamo, quindi ci difendiamo. Abbiamo paura, quindi attacchiamo. Non si può far finta che non esistono negandoli, ma un modo per renderli inoffensivi è sicuramente quello di usare buon senso e ironia.
MONOLOGO
di Michela Grande
…sui pregiudizi
Che dire, da quando nasci ti accorgi di essere “guardata con occhi diversi …”
- La prima persona è tua madre che ti vorrebbe proteggere da tutti quegli sguardi compassionevoli : “poverina, è così carina … che peccato!!” E lei cerca in tutti i modi di dimostrare al mondo che sei assolutamente normale, hai un naso, una bocca, due mani, due gambe (beh, quelle forse ci sono e non ci sono….)
- Poi la scuola …. La tua maestra! E anche lì è tutto da rifare, niente è uguale agli altri:
– Entri nella scuola dopo gli altri … “potresti cadere, i bimbi ti spingono!”
– All’intervallo seduta al banco : “potresti cadere, i bimbi ti spingono!”
– Esci dopo gli altri : “potresti cadere, i bimbi ti spingono!”
Che barba questi bimbi ….. Ma sono tutti così maleducati?
Ora sono in quinta elementare …. Vedrai cambierà tutto! I bimbi diventano ragazzi e crescendo capiranno che sono solo un po’ debole ….. niente di più! - Il tempo passa … sono signorina!!! Tutti escono, vanno in discoteca, e io? Io non posso sono già carrozzata …. In discoteca? A fare che?
- Non mi rimane che studiare … sceglierò l’Università… Medicina!
Medicina???? “Ma insomma tieni i piedi per terra … non vorrai certo diventare medico, a che pro? A che ti serve una laurea… tu non potrai mai professare! - Al supermercato se vado da sola le commesse sono in imbarazzo, cercano a tutti i costi un accompagnatore e quando si accorgono che sono capace di intendere e di volere (comprare il pane), guardano da un’altra parte… si emozionano: poverina! Una così bella ragazza!
- Ho incontrato un uomo! E’ bello! E… stranamente non guarda la mia carrozzina. Sai che quando mi parla mi guarda negli occhi?! Non ci sono abituata…!
“Sei matta?
Ti vuoi sposare?
Ma sai cosa vuol dire avere una famiglia?
Non puoi pensare che un uomo sta accanto a te per tutta la vita!
…e i figli?
Hai pensato che forse lui vorrà dei figli”?
Sono sposata da 21 anni, ho un figlio di 17 anni… e mio marito non è ancora scappato.
Anche mio padre si è arreso all’evidenza.
Anche il mio datore di lavoro si è arreso davanti alla mia caparbietà.
Certo ogni giorno devo dimostrare a tutti i colleghi che sono una buona impiegata, perché niente mi viene regalato! Del resto io non ho mai chiesto sconti alla vita!
Anche l’assistente sociale si è arresa alla “normalità” della mia famiglia, già proprio loro “i servizi sociali” che dovrebbero cercare l’integrazione del e nel “disagio”, quando è nato mio figlio venivano a casa per “controllare” che tutto fosse secondo le regole: ma dov’erano quando piangendo ho dovuto rinunciare all’università? E quando cercavo un posto di lavoro?
Ma che importa! Mio figlio ha un naso, una bocca, due mani, due gambe… e le sue funzionano bene!
Anche la commessa del supermercato… si è arresa… certo quando vado con mio marito a far la spesa è tutta un’altra cosa:
– io scelgo i prodotti della casa,
– decido cosa mangiare,
– quanto spendere,
– io pago col bancomat…
Ma lei si rivolge sempre a mio marito… per il resto e lo scontrino!
Mi sorge un dubbio: e se fossi io quella che si deve arrendere?
IL NOCCIOLO DEL PROFANO
di Simona Lancioni
La conclusione più ovvia è sembrata quella di cercare occasioni di contatto, scambio e conoscenza: se il “giudizio rigido ed erroneo” deriva dal non avere familiarità con l’altro (individuale o collettivo), nel momento in cui l’altro diventa un soggetto noto e conosciuto dovremmo poter arrivare ad un’opinione corretta (rispondente alla realtà), e ad una condotta appropriata alla situazione. “Le persone (normodotate/sane/normabili/?) hanno spesso dei pregiudizi nei confronti delle persone con disabilità perché non le conoscono. Se le conoscessero cambierebbero idea e avrebbero pensieri e atteggiamenti più consoni”: sembra essere il ritornello più gettonato.
Così è in teoria. In pratica però non sempre le cose vanno in questo modo. Nel senso che talvolta la conoscenza dell’altro, lungi dall’evidenziare un pregiudizio ed indurre al suo superamento, potrebbe addirittura arrivare a consacrarlo sull’altare dell’esperienza. Così, ad esempio, lo stereotipo vuole il napoletano allegro e gentile, ma anche poco puntuale. E, in effetti, dopo aver aspettato per circa tre ore alla stazione di Napoli che il pulmino arrivasse per portarci a Marina di Varcaturo lo stereotipo mormorato ha avuto modo e tempo di consolidarsi: il dato empirico forniva una pericolosa conferma alla teoria! Altro esempio: “gli zingari rubano”. Altro stereotipo verificato e confermato da esperienze personali. Altro preoccupante riscontro.
Il fatto è che spesso stereotipi e pregiudizi nascono e si alimentano su un “nocciolo di verità”. L’errore consiste nel ritenere che quel nocciolo esaurisca la realtà, e che le caratteristiche riscontrate in una persona siano automaticamente riferibili a tutti coloro che fanno parte del suo gruppo (negli esempi citati: i napoletani e gli zingari). Diceva Voltaire: “un po’ di verità diventa l’errore del profano”.
Non credo che basti conoscere “l’altro” per superare i pregiudizi nei suoi confronti, credo sia indispensabile che questo “altro” non corrisponda all’idea preconcetta. Il ministro (ormai ex) Mirko Tremaglia (di Alleanza Nazionale) ha lavorato con grande impegno ed entusiasmo per consentire agli italiani all’estero di votare. Un entusiasmo sorretto anche (o soprattutto?) dal pregiudizio che la maggioranza degli italiani all’estero simpatizzassero per la destra (pregiudizio, va detto, condiviso anche da larga parte della sinistra). E’ facile ipotizzare che oggi la destra, avendo perso le ultime elezioni proprio grazie ai voti degli italiani all’estero, dovrebbe aver trovato riscontri tali da indurla a superare le proprie idee preconcette. Certo, non manca chi ha provato e prova a negare l’evidenza. Ma sostenere argomentazioni non supportate da dati oggettivi in presenza di riscontri contrari e tangibili darebbe problemi anche al più abile dei sofisti.
Solo tanti napoletani puntuali e tanti zingari onesti potrebbero essere in grado di correggere gli stereotipi che li riguardano. Forse, se ancora oggi il pregiudizio nei confronti delle persone disabili è ancora così radicato, le stesse persone con disabilità potrebbero iniziare a interrogarsi e a lavorare su quei “noccioli” per levare gli alibi ai profani. E’ abbastanza faticoso continuare a trattare impropriamente qualcuno quando questo ti nega con tenacia il proprio consenso. Forse, il dissenso – arma pacifica di straordinaria potenza – non è ancora sufficientemente forte.
Non sto cercando di scaricare sui “gruppi bersaglio” la responsabilità dei pregiudizi a cui sono – loro malgrado – soggetti. So benissimo che ognuno è personalmente responsabile delle idee storte che gli abitano in testa. Ma il pensiero che i gruppi soggetti a pregiudizi possano – sia pure inconsapevolmente – assecondare o favorire valutazioni e atteggiamenti dannosi per loro mi sembra decisamente paradossale. Considero invece filosoficamente utile e politicamente interessante sondare le potenzialità di una contrapposizione pacifica, ma forte, costante, ineludibile, inequivocabile.
FARE CHIAREZZA
di Edvige Invernici
Dante aveva la distrofia muscolare. La testa piena di ricci, i ricci pieni di caparbietà. Circolava per Bergamo con la sua carrozzina a motore a caccia di barriere architettoniche, di fatti e misfatti, di avventure. Vita sociale, politica e partitica intensa e grande voglia di amare. Dialogò con Miriam Massari in una intervista su l’Unità proprio sul tema all’amore. Sosteneva che la donna di cui si era innamorato e che lo aveva respinto, avrebbe dovuto corrisponderlo proprio perché lui era disabile, anzi, handicappato come amava definirsi. E non accettò mai il parere contrario espresso dalla giornalista, tra l’altro, disabile.
Abuso dello stereotipo, direi.
Un giorno andò a comprarsi il pane presso un forno diverso dal solito. L’ingresso al negozio gli era impedito da un gradino di dieci centimetri. Si accostò di traverso e tese la mano per chiamare il commesso. Era controluce, la sagoma della carrozzina molto evidente, i ricci stagliati nel contrasto. Sentì cadere nella mano qualcosa di metallico. Quando la ritrasse vide una moneta luccicante. D’oro e d’argento.
Pregiudizio esponenziale, credo. Soprattutto se si pensa che accadde cinque anni fa.
Di persone disabili che pretendono l’amore per la propria condizione non ne ho incontrate più. Così come nessuno mi ha più riferito che un gesto di richiamo sia stato frainteso con l’accattonaggio.
Ma gli sguardi pietosi, le reticenze, le difficoltà e le paure sono ancora presenti in molti di noi. Così come i buffetti sulle guance dei più piccoli e le pacche affettuose sulla testa degli adulti, il rivolgersi all’accompagnatore per chiedere informazioni sull’accompagnato al quale è riservato un sorrisetto il più ambiguo possibile nel tentativo di celare la commiserazione.
Atteggiamenti risaputi. Vecchi, triti e ritriti. Ma non è possibile eluderli solo per questo.
Il pregiudizio nasce forse dallo stereotipo?
Eppure, la coperta scozzese è sparita dalle ginocchia della persona in carrozzina. Qualcuno si è perfino fatto ritrarre nudo, sulla carrozzina. Altre l’hanno utilizzata per poter sfilare su passerelle firmate. C’è chi ci vive, ci lavora, ci fa l’amore.
Lo stereotipo è forse uno strumento di difesa talmente usato dal disabile da alimentare il pregiudizio?
Che confusione.
Forse è necessario, prima di ogni altra cosa, fare chiarezza. E per fare chiarezza è necessario vivere le situazioni, condividere i momenti quotidiani, raccontarsi, relazionarsi. Incontrarsi nei seminari come quello organizzato dal Gruppo donne della UILDM.
Peccato che io non c’ero.
IL MIO IMPEGNO
di Anna Petrone
La società attuale è fortemente condizionata da stereotipi e pregiudizi, chi ha avuto modo di partecipare al seminario proposto dal Gruppo Donne, ha potuto rendersi conto di quanto i pregiudizi condizionano la vita di una persona con disabilità.
Il pregiudizio spesso è il prodotto di una mancanza di conoscenza dell’altro, in particolare quando questo è portatore di uno stigma (disabile, straniero, omosessuale, ecc.)
La mia esperienza di persona con disabilità mi ha portato a pensare che il pregiudizio viene anche alimentato dal modo in cui noi ci rappresentiamo. Molti sono convinti che la persona disabile debba essere per forza di cose triste e insoddisfatta, forse perché molte persone disabili vivono la loro condizione con questo spirito, ma ce ne sono anche tante che rifiutano questo approccio poiché non vivono con lo stesso atteggiamento.
Ho sempre pensato che quando esco di casa io, che sono in carrozzina, sono guardata con maggior interesse dalla società e per questo motivo il mio impegno è quello di creare una cultura positiva della disabilità.
QUALCOSA DI PROFONDO
di Edoardo Facchinetti
Personalmente, sugli stereotipi o sulle varie stereotipie ho un’opinione che sintetizzo così: siccome mi fai naturalmente paura perché non ti conosco e perché non rientri nei miei standard, io ho l’opportunità di costruirmi un’immagine a mio piacere e consumo, e se tu non rientri in questa immagine mi dispiace, ma è peggio per te… Se poi l’immagine me la faccio imporre dai media il tutto si complica e si restringe. Idem per i pregiudizi. Anche se i pregiudizi hanno tutta una loro storia antropologica. Se gli stereotipi o le stereotipie sono venuti a galla e si sono amplificati con la creazione dei linguaggi dei mass media, i pregiudizi si sono insinuati addirittura dalla creazione del genere umano. Per esempio: prendiamo il passo della genesi in cui Adamo ed Eva accusano il serpente di essere stato lui la fonte del peccato perché gli ha offerto il frutto. Ma tutto ciò non mi scandalizza, non mi fa paura. Sono cosciente che come uomo devo fare i conti con la paura verso l’altro, paura naturale, paura istintiva. Qui subentra, o, meglio, dovrebbe subentrare, l’educazione ad aiutare nel superamento di tale naturale istinto. E per quanto riguarda gli standard proposti e imposti dai media finché siamo bambini siamo mitigati dall’istinto: bambini e bambine sono istintivi, ma tante volte proprio perché istintivi, non hanno determinate paure e non hanno certi pregiudizi, quando non sono i pappagalli del contesto familiare e sociale. Ma quando diveniamo adulti, cioè capaci di raziocinio, e ci lasciamo imporre determinati standard, forse c’è qualcosa nel nostro profondo che non va. Profondo inteso sia come mondi istintuali che come coscienza.
UN MONDO “DIVERSO”
di Fracesca Arcadu
Immaginando di voler scrivere qualcosa sul tema “stereotipo ed handicap”, pur non avendo direttamente preso parte al seminario svoltosi durante l’Assemblea della UILDM, ho concentrato la mia attenzione su ogni aspetto della vita quotidiana legato alla percezione dell’altro, inteso come altro da sé, in veste di stereotipo.
E pensando e ripensando, ogni volta mi tornava alla mente una frase di Woody Allen in cui, con la sua solita capacità di delineare strambi personaggi, ne ipotizzava una: una donna che fosse “negra, ebrea, omosessuale, comunista”.
Ogni volta che penso agli stereotipi immagino questa sorta di chimera e mi diverto mentalmente ad arricchirla con un nuovo elemento che ben conosco: la disabilità.
Ecco, per me questo personaggio immaginario (ma chissà poi quante ce ne sono di donne che racchiudono in sé tutte quelle caratteristiche etniche e fisiche, di orientamento sessuale e politico) è la rappresentazione tangibile di ogni tipo di stigma, rappresenta bene quei due o tre capisaldi di percezione e giudizio con cui ognuno di noi ha fatto i conti almeno una volta.
Come donna disabile, naturalmente, ho il privilegio di essere io stessa portatrice di uno stigma e questo mi mette senz’altro in una posizione “scottante” dal momento che, una volta cresciuta, ho capito che sarebbe stato poco “carino” e soprattutto intelligente, avere io stessa dei pregiudizi nei confronti dei miei compagni di stigma.
Così ho fatto i conti con i miei preconcetti ed ho scoperto quanto sia facile lasciarsi traviare da opinioni, immagini stereotipate, pregiudizi di ogni sorta che, come spesso si può appurare, rendono apparentemente più semplice accostarsi a qualcuno che non si conosce.
Questo mi ha portato ad una sorta di “cameratismo da stigma”, cioè a sposare inevitabilmente le cause di coloro che, attraverso movimenti di opinione, dibattiti, scritti e documenti vari, cercano di farsi riconoscere nella loro unicità, personalità, spogliandosi dalle etichette che si ritrovano addosso.
In questo tentativo io mi impegno senza sosta ogni volta che posso, per rivendicare il mio diritto di essere “PERSONA” e non “DISABILE” tout court, come se quella fosse la mia unica caratteristica, la parte per il tutto.
Purtroppo è una tela di Penelope, ogni volta che mi illudo di essere riuscita a farmi riconoscere e conoscere come donna, persona, lavoratrice e compagna, arriva sempre qualcuno che mi ricorda che sono diversa dagli altri, che il mio fidanzato potrebbe essere in realtà mio fratello, un assistente o meglio un volontario che mi accompagna di qua e di là. E ancora, sconosciuti che si sentono in dovere di ricordarmi che posso lavorare “per tenermi occupata e passare il tempo”, oppure che sgranano gli occhi quando sanno che posseggo una laurea ed infine, i più carini, quelli che vedendomi ben vestita, sorridente ma, ahimé seduta, esclamano a bassa voce: “che peccato di ragazza”.
Ecco, in questa lotta contro i mulini a vento credo che sentirmi meno sola nella mia stigmatizzazione mi aiuti a focalizzare il nemico e capire che, spesso, non è per cattiveria che le persone vedono “i diversi” attraverso minuscoli cannocchiali, che inquadrano solo l’elemento di differenza, ma solo per sana e radicata ignoranza.
Credo che spetti a noi, portatori di disuguaglianza, mettere in mano a costoro un obiettivo con un grandangolo, che ci regali un’inquadratura completa, a tutto tondo, pregi e difetti e sacrosante differenze.
MI SEMBRA IERI
di Elisa Di Lorenzo
Mi sembra ieri che una valanga di dolorose e tristi sventure si siano accanite su di me ed invece sono già trascorsi circa ventidue anni…
Cominciai a scontrarmi con la dura realtà del pregiudizio quando, trentaquattro anni fa, decisi di sposarmi e di trasferirmi dal mio paese di origine, Sessa Aurunca (Caserta), alla città di mio marito, Padova. Mi impegnai da subito per dimostrare di essere una brava lavoratrice e persona ordinata. Ma il marchio “terrona”, come per significare diversa, mi ha sempre accompagnata.
Quando dopo quattordici anni di matrimonio, e due bimbe meravigliose, ero riuscita a trovare un po’ di pace interiore riguardo questo pregiudizio, sforzandomi di farmi accettare e stimare dalle persone del nord, cominciò il calvario della mia malattia, la Charcot Marie Tooth. Un calvario fatto soprattutto di umiliazioni sia in campo sociale che lavorativo.
Prima che i medici giungessero alla diagnosi precisa, infatti, passai per depressa. Persino in famiglia, la mia sofferenza venne scambiata per un’improvvisa forma di ipocondria e di pigrizia visto che fino a quella età ero stata davvero instancabile.
I ritmi della giornata divennero per me angosciosi ed impossibili. La sera ero a pezzi, mentre al mio rientro a casa tutti si aspettavano sorrisi e scherzetti.
Chiesi il part-time. Ciò nonostante fui costretta più volte ad assentarmi dal lavoro per problemi di blocchi articolari. Fu l’occasione per l’azienda di licenziare il personale più scomodo, me compresa.
Ricordo il colloquio con il direttore del personale, la desolante conclusione e la feroce rabbia per aver subito un grave torto.
Solo un anno dopo mi sarebbe stata diagnosticata la malattia. Solo allora potevo finalmente dimostrare, copia dell’analisi del DNA alla mano per i più increduli, che avevo una vera e seria motivazione per stare male. Era molto forte anche il sentimento di rabbia per aver perso il lavoro solo un anno prima, passando per una persona “scomoda”, che non aveva voglia di lavorare. Sarei tornata volentieri dal mio datore di lavoro per una rivalsa personale, ma prevalse l’angoscia per la disabilità futura.
Incominciò l’iter per ottenere l’invalidità e contenta del mio 46 per cento cercai in tutti i modi di ottenere un lavoro adatto alle mie possibilità, ma in dodici anni di iscrizione alle liste speciali non è mai arrivato.
Un giorno in un ufficio per i diritti degli invalidi, su mia insistenza a volere un lavoro anche di poche ore, mi fu risposto che io ero già molto fortunata avendo già la busta paga di mio marito in casa, ma ero e sono sicura che ad un uomo disabile, pur avendo una moglie che lavora, non gli verrebbe mai data una simile risposta, e questo lo feci notare. Unica soddisfazione fu che il giorno successivo l’impiegato dell’ufficio mi telefonò per scusarsi, rendendosi conto di aver sbagliato a parlarmi in quel modo.
Nel raccontarvi la sintesi di alcuni episodi della mia vita, volevo far capire quanto i molti pregiudizi che si nutrono nei confronti di alcune “categorie” di persone, possano creare prima di tutto sofferenza. Ma anche ingiustizie e soprusi. Come nei confronti delle donne-mamme-disabili.
Con questa mia testimonianza voglio esprimere la mia solidarietà a tutte le donne, ma farmi soprattutto portavoce di quelle che in silenzio subiscono i pregiudizi.
Non me ne voglia il sesso maschile. Mi auguro che il futuro della donna possa migliorare ed essere sempre più sgombro da stereotipi e pregiudizi.
MA TI XÈ ENDICAPPÀ?
(Ma sei handicappato?)
di Gianfranco Bastianello
Penso si possa condensare in questa tipica battuta veneziana, lo stereotipo del disabile in generale. Non c’è cattiveria in questa battuta, semmai il contrario: l’unione delle diversità. Perché un “handicappato”, in questo gergo, è unicamente quello che fa degli errori madornali, delle castronerie, per incapacità. Se un disabile le cose le fa bene, non sarà mai un handicappato, mentre lo sarà un normodotato che combina disastri.
Qualche anno fa, ormai decenni, lo stereotipo del disabile era lo storpio, lo spastico. Non se ne vedevano molti in giro e quei pochi erano in parte dileggiati (“guarda come cammina quello”), in parte pietiti (“poverino”).
Molte battaglie ci sono state; molta cultura è cresciuta; molti disabili si vedono oggi in giro.
Così è cambiato anche lo stereotipo del disabile. Pochi sono quelli che si soffermano a guardare… come cammina una persona, o una carrozzina passare, se non per guardare alla tecnologia della cosa.
I bambini sì, queste piccole pesti crudeli continuano nella loro innocente cattiveria, a studiare quegli esseri che avanzano in malo modo o scarrozzano con dei passeggini più grandi dei loro. Subito pronti a mettere in imbarazzo i loro genitori con le loro domande impertinenti: “Perché quello cammina così? Perché quel signore ha la carrozzina?”.
Su questo punto c’è ancora un po’ di difficoltà, anche da parte di genitori giovani, a riuscire a rispondere in maniera serena ai pargoli e nello stesso tempo a non offendere il disabile che ascoltando, potrebbe appunto risentirsi (non si sa mai!).
Qualche anno fa, in questi frangenti, il pargolo veniva brutalmente allontanato con le tipiche frasi: “girati, lascia perdere, non guardare …”. Ma anche qui, per fortuna, qualcosa è cambiato ed i genitori hanno cominciato a rispondere in maniera più logica: “il signore ha male alle gambe, si sarà fatto male, ecc.”.
Torniamo agli stereotipi. Anche questi sono cambiati, non so se in meglio o peggio, lascio a chi legge la conclusione.
Il disabile ora è visto come “una rogna”. Già. Il fatto che in tutti questi anni, il disabile abbia avanzato delle richieste, lo ha portato sì a conquistare molte cose (eliminazione barriere architettoniche, inserimento lavorativo, bagni accessibili, ecc.), ma per chi queste cose ha dovuto “subirle” il disabile è visto come un piantagrane, un seccatore.
L’obbligo di creare bagni attrezzati; l’obbligo di assunzione di persone disabili, sono tutte cose che la maggior parte dei gestori di attività vive come una imposizione, non certo come un adeguamento culturale. Se osserviamo infatti lo sguardo di qualche ristoratore quando si avvicina un “carrozzato”, sembra quello dello studente che spera di non venire chiamato fuori per l’interrogazione: “speriamo non si fermi qui…”
Se poi invece il carrozzato si ferma, allora cominciano tutte le sceneggiate: “dove andate meglio? Sposto questo e quello? Vi faccio aprire il bagno.. (chissà perché era chiuso quello per disabili).
Se andiamo da un professionista, o presso un’impresa costruttrice, anche lì il disabile, con le sue leggi e misure… è una seccatura.
In autobus, quando il disabile chiede il posto a lui dedicato e deve far spostare i vari passeggeri e relativi bagagli… è una seccatura.
Quando pretende di parcheggiare nel posto riservato ai disabili, e il normodotato deve ricercare un altro parcheggio… è una seccatura.
Già. Forse è questo il nuovo stereotipo del disabile… il seccatore!
UNA FELICE RIVOLUZIONE
di Piera Becherini
Il pregiudizio è un’opinione che precede la diretta conoscenza dei fatti o delle persone. Per abbattere alcuni pregiudizi è sufficiente la conoscenza della persona o dei fatti, per altri c’è bisogno di ragionamenti e conoscenze più complesse, altri ancora, invece, vengono rinforzati da esperienze negative.
Non è facile trovare un modo semplice per affrontare in modo chiaro i pregiudizi, infatti essi sono così presenti ed impregnati nel nostro modo di essere che spesso nel tentativo di superarli rischiamo di crearne di nuovi.
E’ inutile negare che ognuno di noi, in alcune occasioni, consapevolmente o inconsapevolmente, ha avuto idee sbagliate giudicando male qualcuno, e che noi stessi, a nostra volta, siamo stati mal giudicati. In linea di massima si potrebbe affermare che siamo tutti vittime del pregiudizio. Tuttavia è possibile limitare i danni cercando di correggere i pensieri che alimentano il pregiudizio, mentre è sicuramente pericoloso continuare a coltivarli arroccandosi dietro idee preconcette: un atteggiamento che induce a conservare delle “falsità”. Espressioni stereotipate come “il tipico provinciale”, “la tipica donna al volante”, o, ancora, “tipicamente tedesco”, fanno parte della nostra vita quotidiana, ma proprio a causa di questi stereotipi alcuni sono indotti a credere veramente che una persona possa essere avida, pigra, stupida o altezzosa solo perché appartiene a un determinato gruppo religioso, etnico o nazionale.
Alcuni pregiudizi sul disabile – quelli che lo vogliono “infelice”, “debole”, “non capace” – spesso derivano dalla mancanza di conoscenza diretta della persona disabile, ma, altrettanto spesso, dalla nostra difficoltà a rapportarci con i nostri limiti ed i nostri handicap. Afferma Angelo Lascioli che “il pregiudizio sull’handicap è funzionale ad una cultura che nasconde all’uomo la sua vera natura, ovvero quella di essere limite che rinvia ad altro”. E coloro che hanno dei deficit, coloro nei quali il limite si concretizza in qualche menomazione o ritardo, sono proprio coloro che la cultura dello scarto individua come “recipienti” dentro cui versare il limite che l’uomo non vuol vedere e guardare in se stesso”.
Essendo una logopedista, molta parte del mio lavoro ha comportato un contatto diretto e prolungato con le persone disabili. E’ stata un’esperienza a volte complessa e difficile, ma anche la base di quell’arricchimento che deriva dal doversi mettere in discussione. Una buona palestra per imparare a guardare i problemi da punti di vista diversi, e per superare pregiudizi o false conoscenze. Sono partita forte delle conoscenze imparate sui libri, ma ho scoperto presto che quel rapporto non poteva essere unidirezionale, e che quel dare e ricevere reciproco non avrebbe avuto ripercussioni solo a livello professionale, ma su una personalissima scala dei valori in cui imparare a dire una parola, o a svolgere un’attività prima impensabile, diventava fonte di una felicità che, in situazioni ordinarie, avrei definito sproporzionata. Di questa “rivoluzione” non posso che essere grata.
UNA POESIA PER VOI
di Marina Voudouri
È sempre difficile scrivere questo benedetto contributo per la dispensa. Infatti, sono riuscita a contribuire solo una o due volte. Anche perché non appartengo allo stereotipo di chi fa qualcosa perché è giusto che lo faccia, ma sono più vicina allo stereotipo di chi va a istinto, a “ispirazione” – anche se devo ammettere che questi due stereotipi si mischiano in me, insomma, posso dire che sono diversa. Diversa?! E chi è uguale a chi? Forse sarebbe meglio usare il termine “simile alla media”. Alla media?! E come si fa questa media? Aggiungiamo tutte le persone e poi le dividiamo per il numero di persone che abbiamo aggiunto? Fate un po’ l’operazione! Il risultato (se possa esistere matematicamente) è: 1. Uno come per dire unico? Penso proprio di sì…
A me non è mai piaciuto lo stereotipo della donna che troverà il principe e che si sposerà. Neanche quello stereotipo che vuole l’uomo offrire la cena alla donna con la quale esce. Mi fa piacere quando mi si offre una cena, come fa piacere anche a me offrirne una all’uomo con cui esco. Mi fa piacere quando un uomo che mi piace mi propone di uscire, come mi fa piacere anche quando glielo propongo io (mi fa piacere, ovviamente, se accetta!). Certo, è un po’ stancante vivere in una società dove la “regola” è che sia l’uomo a proporre a una donna di uscire e che io debba spiegare ogni volta che la penso diversamente. Ma chi è che fa le regole?
Mi capita spesso di trovarmi davanti anche un altro stereotipo: io sono di nazionalità greca. Dai, per favore, non pensate pure voi a Socrate e ad Aristotele! Non mi chiedete se sono di Atene o di un’isola! Non sono di Atene. Non sono di un’isola. E la Grecia non è solo “saggi di centinaia di anni fa”. E’ molto diversa ora. Io non ho vissuto negli anni di tutti quegli uomini, ma nella Grecia di adesso. E di mitologia so sicuramente molto meno di molti di voi: non mi piace la mitologia e non l’ho mai studiata con attenzione. Anche questo risulta stancante: essere vista come la rappresentante del palinsesto dell’antichità. Mi sento onorata, lo confesso, ma, come per ogni cosa, tutto è buono se in piccole dosi…
Faccio l’insegnante d’inglese, questo è proprio il mio lavoro. Non vi dico quanta fatica se devo spiegare ogni volta come mai sono insegnante di una lingua che non è la mia madrelingua! E se vi dicessi che mi risulta molto più difficile insegnare e spiegare la lingua greca che quella inglese…! Anche solo per il semplice motivo che l’una l’ho imparata automaticamente, la parlo d’istinto, non so neanche spiegare bene come funziona e perché funziona così, mentre l’altra ho dovuto impararla anch’io e ho dovuto “capirla” anch’io. Certo, questa distinzione basta spiegarla, poi pure gli stereotipi cadono. Ma come fai a spiegarlo a tutti? Posso farlo ai miei studenti o agli aspiranti studenti, ma farlo a chiunque scopre quale è il mio lavoro… Insomma, diventa parecchio impegnativo, no?
E così via con tutti gli stereotipi…
Ma chi li crea questi stereotipi? Boh! Escono fuori, si creano, sono autonomi, autosufficienti, crescono, cambiano pure. Un po’ come le barzellette: non si è mai svelato il creatore di una barzelletta. Assomigliano un po’ anche ai Ciclopi che non si sa come hanno fatto a trovarsi in quell’isola. Ecco, mi è venuta in mente una poesia che vorrei condividere con voi…
Ci vediamo al prossimo seminario!
Itaca
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere d’incontri
se il pensiero resta alto e il sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga
che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche aromi
penetranti d’ogni sorta, più aromi
inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca
– raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo,per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
Già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
Costantinos Kavafis, Cinquantacinque poesie,
traduzione e cura di Margherita Dalmati e Nelo Risi, Torino, Einaudi, 1968, p. 63.
I LIMITI DEL NOSTRO MONDO
di Annalisa Benedetti
I pregiudizi sono i nostri compagni di vita più fedeli. Non ci abbandonano mai. Da quando, da bambini cominciamo a formulare la capacità di giudizio, a quando, una volta raggiunta la maturità intellettuale, siamo in grado di formulare un pensiero nostro, quindi anche un pregiudizio nostro.
In ogni contesto in cui ci troviamo, per qualsiasi scelta dobbiamo optare, i pregiudizi sono lì, nella nostra testa, pronti come sentinelle a farci da arbitri, consiglieri, scudieri…
È un po’ come se fungessero da confine tra il nostro mondo e quello fuori, al quale abbiamo sempre un po’ paura ad andare incontro. E allora ci creiamo il limite oltre il quale è meglio non andare.
Da chi apprendiamo a crearci i limiti del nostro mondo? Da chi ci sta accanto: genitori, fratelli, nonni, zii, cugini, balie, badanti, insegnanti, amici, compagni, mariti, mogli, colleghi e qualsiasi persona con cui abbiamo o decidiamo di avere una relazione.
Ma non solo da chi. Anche da quello che ci circonda. I contesti e i luoghi dove nasciamo e cresciamo, con la loro storia. La società ha un bel ruolo in questo. Dalle microsocietà dei quartieri cittadini e dei paesi di provincia (non dimentichiamo che la prima società in cui viviamo resta sempre la famiglia), al macro sistema sociale e culturale nel quale ci ritroviamo inseriti – o non inseriti! – (Continente, Stato, Città).
Da quanti luoghi apprendiamo! La scuola, il cortile, la strada, la parrocchia, il posto di lavoro, il circolo ricreativo, quello culturale, politico e tutti i centri che aggregano persone e che decidiamo di frequentare.
E poi la televisione. Già, come dimenticare la televisione. Quella scatola nera che ti porta il mondo in casa con le sue leggi e i suoi criteri di selezione e comunicazione così stereotipati. Dal programma di intrattenimento al telegiornale, dalla trasmissione “intellettuale” al reality show. Tutto buttato lì per tutti: bambini, adolescenti, adulti, anziani.
Ma allora da dove nascono i pregiudizi? Da ciò che ci circonda o da noi stessi?
Il modesto parere di una che non ha condotto studi particolari in materia né approfondito nulla in proposito è che, fondamentalmente, il pregiudizio nasce da chi e da ciò che ci circonda. Se apprendiamo “per imitazione” e all’inizio imitiamo… È solo a un certo punto della nostra età che riusciamo a capire se tutto quello “imitato” è giusto o sbagliato. È a questo punto che possiamo fare la differenza. Mollare un metodo che ci sembra sbagliato per seguirne e trasmetterne uno più giusto. Smantellare un pregiudizio. Cominciare a cercare di proseguire nel nostro cammino senza più formularne pre-giudizi. Semmai post-giudizi. Perché no? Non si è mai sentito utilizzare questo termine, vero? Prima conosciamo, poi giudichiamo, se proprio dobbiamo.
Se è vero che “non si è mai finito di crescere”, siamo sempre in tempo, tutti quanti a provarci.
Certo è difficile. Ci vuole un bell’allenamento. E ci vuole anche coraggio ad andare oltre i limiti del nostro mondo. Costruito un po’ dagli altri, ma rafforzato da noi stessi.
Ma è la fatica degli allenamenti che porta il gusto della vittoria!
E in caso di sconfitta?
Ci abbiamo comunque provato e… che coraggio!
Anche solo per questo meritiamo un premio.
LABILI CONFINI
di Enrico Lombardi
Il fatto è passato in secondo piano. Forse per rispetto istituzionale, forse per la stanchezza della campagna elettorale, forse, semplicemente perché tutto sommato non si è ritenuto di dare alla cosa molta importanza. Fatto sta che i media e, stranamente anche la parte politica che fino a poche ore prima aveva osteggiato la sua elezione, hanno sorvolato sulla gaffe che ha visto, suo malgrado, protagonista il Capo dello Stato Giorgio Napolitano.
Ci riferiamo a quella che, con tutta probabilità, è stata la prima uscita del neo eletto Presidente della Repubblica, il quale davanti ad una scolaresca in visita al Quirinale, ha dovuto subire una vera e propria “strigliata” da parte di un bambino non vedente. Nessuno aveva pensato a preparare una versione in braille della Costituzione. Tutto sommato il Presidente, a parte il normalissimo e umano imbarazzo iniziale, ne è uscito bene. Ha evitato frasi di circostanza ed ha ammesso, scusandosi, la “propria” mancanza. Ci auguriamo che nel frattempo al bambino sia stata recapitata una copia della Costituzione leggibile anche da chi come lui non ha l’uso della vista.
Niente di grave, per carità. Vista la grinta del ragazzo, ci sembra che la cosa non abbia lasciato ferite profonde, anzi siamo sicuri che quello non era certo il primo episodio di discriminazione che doveva subire. Purtroppo siamo altrettanto sicuri che non sarà l’ultimo.
Così, come ogni estate ci regala l’ennesimo caso di discriminazione nei confronti di qualche gruppo di disabili ospite di qualche struttura turistica. L’unico dubbio è se saranno i clienti a lamentarsi oppure direttamente i gestori. Poi viene l’autunno e con l’inizio delle scuole i soliti problemi. Mancanza di insegnanti di sostegno, difficoltà nel trasporto degli alunni con disabilità, carenza del personale addetto alla loro cura personale, eccetera, eccetera.
Potremmo continuare a lungo, in una sorta di calendario dei pregiudizi e delle discriminazioni, probabilmente confondendo anche le due cose. Del resto siamo convinti che le une siano figlie degli altri.
È anche vero che spesso ci troviamo di fronte anche a delle discriminazioni che almeno all’apparenza, sembrano essere a vantaggio delle persone con disabilità. Ad esempio, sempre per rimanere in tema di neo eletti, Francesco Rutelli, ministro dei beni e delle attività culturali ha deciso, in linea con il suo predecessore, di consentire l’ingresso gratuito nei musei italiani delle persone con disabilità e i relativi accompagnatori. Senz’altro ci sarà qualcuno, più coraggioso, che farà sentire la sua voce contro tale provvedimento, ma siamo sicuri che alla fine i disabili e i loro accompagnatori saranno ben contenti di non pagare. Si dirà che chi accompagna una persona disabile da qualche parte di fatto svolge un servizio e che pertanto è giusto che non paghi l’ingresso. Non sempre è così ma in alcuni casi è vero. Ancora si dirà che una persona con disabilità non ha entrate economiche sufficienti e che pertanto, tutto sommato, è giusto dargli queste agevolazioni. Vero anche in questo caso, almeno nella maggior parte dei casi, ma è anche equo? Vogliamo dire che, soprattutto in questo particolare momento storico, non sono soltanto le persone con disabilità a non avere entrate economiche sufficienti, eppure nessuno si sogna di varare un provvedimento simile a vantaggio di queste categorie. A pensarci bene il confine fra pregiudizio, discriminazione e privilegio non è poi così netto e marcato.
VOGLIA DI RINCONTRARCI
di Claudia Del Ferro
L’incontro del Gruppo donne all’ultima Manifestazione nazionale UILDM è stato molto interessante ed ha messo a fuoco più che le “solite problematiche di sempre” lo spirito ironico dei percorsi naturali ed umani a seconda delle proprie esperienze.
Ci siamo calate in una realtà femminea che non è soltanto dei disabili ma dell’essere umano in quanto tale. E’ stato come un ritrovarsi con un gruppo di amiche che non si vedeva da tanto tempo, anche se la maggioranza delle persone presenti era la prima volta che si incontravano. Ognuna ha raccontato i suoi percorsi frastagliati, vissuti indubbiamente da tutte noi: “anch’io però… lo sai è successo anche a me…”!
E’ stata una crescita nel senso più alto della parola. Non è che non sono emerse le immagini: è che il tempo è stato insufficiente. Quando ormai eravamo entrate in confidenza, avendo perso le titubanze iniziali, il tempo a nostra disposizione era finito.
Mi ha lasciato una voglia matta di rincontrarci di nuovo e di riuscire a stabilire la stessa atmosfera di complicità, di familiarità, nella quale probabilmente lo scambio sarebbe maggiore… “che vuoi passa un anno… sai le novità in ogni ambito sociale e personale… è come crescere insieme”.
Per me infatti è stato un accrescimento e vorrei continuare ad ampliare l’incremento dell’apprendere, sublimando la nostra intelligenza e perspicacia.