Aperture di senso

I brani che seguono sono stati scritti per contesti diversi dai rispettivi autori: Luigi Maccione, Elena Armellini e Franco Bomprezzi. Li riportiamo in quanto attinenti al tema “stereotipo e handicap”

PAROLE, PAROLE, PAROLE

del Vampiro (Luigi Maccione)

(Tratto dalla rivista DM, n. 118, aprile 1995, p.14)

Le parole sono importanti, gridava in Palombella rossa un Nanni Moretti infreddolito ed esasperato da un “trend negativo” di troppo pronunciato da un’incauta giornalista. Un’immagine che si affacciò alla mia mente in tutta la sua chiarezza qualche mese fa, e di cui solo ora capisco il vero significato.

Andiamo con ordine. Anche i vampiri viaggiano in taxi. E proprio durante una traversata della città a bordo di suddetto veicolo ha avuto luogo una delle conversazioni più illuminanti cui mi sia capitato di partecipare. Le conversazioni tra tassinaro e passeggero si svolgono di regola secondo una collaudata scaletta che vede sfilare in rapida successione tutti i luoghi comuni che si riferiscono agli argomenti più gettonati di tutti i tempi: la politica (“Rossi e neri sono tutti uguali”), l’economia (“E’ proprio vero che i soldi non danno la felicità”), il calcio (“il pallone è rotondo: c’è chi vince e c’è chi perde”) e le donne (certi tassinari della capitale sono un po’ troppo pepati a riguardo, perciò evito la citazione).

Anche la conversazione a cui mi riferisco stava procedendo nel modo su indicato quando improvvisamente il dialogo prese una svolta inaspettata. Parlando dei problemi del traffico in città, il mio interlocutore cominciò a discutere di handicap, ma diversamente da quanto aveva fatto prima, non si limitò a sfornare i soliti luoghi comuni pietistici a cui siamo più o meno abituati, bensì fece esplicito riferimento ai diritti che la società non assicura, a chi non è perfettamente autosufficiente.

Un discorso semplice che se pure mostrava scarsa conoscenza del tema, era allo stesso tempo indice di sensibilità e buonsenso. Un discorso che terminava più o meno con le seguenti parole: “Tutti devono avere il diritto di andare dove vogliono, sia che abbiano le gambe buone, sia che siano storpi come lei”.

Al termine di questa frase vidi il tassinaro che mi fissava dallo specchietto retrovisore, in attesa di un cenno di assenso da parte mia. Momento di panico: voglia incontenibile di ridere repressa a forza, poi respiro profondo nel tentativo di recuperare l’aria più naturale possibile, e farfugliamento, un “certo, ha ragione” strozzato da due serie di convulsioni da scompiscio.

Il discorso finì lì e mentre la vettura proseguiva la sua corsa, il guidatore aveva ripreso il sentiero dei luoghi comuni ed io ero immerso nei miei pensieri. “Storpio, meraviglioso”, pensai, stupito del fatto che un termine così aspro non solo non mi inducesse, come il critico Nanni, a schiaffeggiare il mio interlocutore, ma mi colpisse positivamente.

Qualche settimana dopo, sfogliando una rivista di chissà quale associazione, mi imbattei in una rubrica su “Handicap e legislazione”, lettura per me tra le più soporifere, a cui mi dedico solo in periodi di prolungata insonnia. E mentre scorrevo le righe dell’articolo, nella dolce consapevolezza che di lì a poco Morfeo si sarebbe abbattuto su di me con tutta la sua potenza, un brano di esso mi riportò bruscamente alla realtà. Era un frammento di una mozione presentata il 21 aprile `94 da alcuni senatori (Zeffirelli e Squitieri in testa) che testualmente recitava: “Quei cittadini infelici e minorati che la natura ha creato diversi e dipendenti dagli altri: handicappati, non vedenti, sordomuti… il cui recupero è oggi affidato in prevalenza ad uomini e donne di buona volontà”.

Questo brano mi scosse e mi apparve improvvisa l’immagine di Moretti in cuffietta e costumino che gridava furioso: “Le parole sono importanti!”. La voglia imperiosa di schiaffeggiare gli autori della mozione si impadronì di me lasciandomi in uno stato di confusa aggressività. Strano. Ero sopravvissuto ad uno “storpio” lanciato così a bruciapelo, ed ora mi agitavo per una frase apparentemente così simile a quella.

Decisi di indagare: nel dizionario a mia disposizione la parola “handicap” si trovava tra “hamburger” e “hangar”, ed era così definita: “menomazione fisica o psichica che mette la persona in condizione d’inferiorità”. Inferiorità: ecco cos’è che non mi convinceva. Non contento continuai le ricerche e trovai: “storpio: chi ha braccia o gambe mal conformate”, una definizione semplice che prendeva in considerazione solamente l’aspetto fisico, ma che non conteneva alcuna connotazione dispregiativa. Una parola poco usata, che il mio interlocutore aveva scelto solo perché forse non ne conosceva altre.

Ciò che mi colpiva nelle parole del tassista è che avesse usato un termine medievale all’interno di un discorso tutto sommato moderno. La mozione dei senatori preoccupati per le sorti dei cittadini “infelici” conteneva invece uno strano miscuglio di terminologia moderna e antica che tradiva un malcelato imbarazzo nei confronti dell’argomento. Insomma, mentre la prima frase affermava l’uguaglianza dei diritti, la seconda sottolineava la diversità, fornendo dei giudizi di valore quanto meno discutibili.

Disabile, handicappato, minorato, invalido, storpio e chi più ne ha più ne metta. Le parole sono importanti, ma ancora più importante, Moretti permettendo, è il tipo di atteggiamento culturale di chi queste parole le usa, magari per decidere sulla vita degli altri.

COME SCEGLIERE LE PAROLE?

di Elena Armellini

(Pubblicato sulla rivista della UILDM di Bergamo, “Il Jolly”, n.73, luglio 2006, p.12- col titolo «Disabilità, misuriamo le parole»)

Ad ognuno di noi è capitato almeno una volta di dover parlare di disabilità. È spesso difficile trovare le parole adeguate, il termine più opportuno per parlare di disabilità in modo “giusto”. Le parole che le persone usano sono molto importanti, esse possono offendere o rinforzare gli stereotipi negativi. Il linguaggio che usiamo modella infatti le idee, le percezioni e gli atteggiamenti: usare una lingua negativa e paternalistica produce immagini negative e paternalistiche. Utilizzare in modo attento le parole contribuisce invece a modellare atteggiamenti positivi e rispettosi.

Se per le persone che tutti i giorni parlano di disabilità il termine da usare è importante, esso lo è ancora di più per chi di mestiere si occupa di parole: i giornalisti e gli scrittori.

Nel 1987 è comparso per la prima volta nel “libro dello stile” della stampa associata la voce “handicappato”. La comparsa di questa categoria è stata il frutto del lavoro fatto dalle organizzazioni per la disabilità per cambiare il modo in cui gli scrittori e i giornalisti scrivevano di disabilità. Questo “libro di stile” è stato solo l’inizio. Da allora molte organizzazioni per la disabilità hanno prodotto guide per evitare parole umilianti e piene di sensazioni e sentimenti quando si parla di disabilità. Il fatto che questo “buon uso” delle parole interessi molti gruppi di persone dovrebbe mettere in allerta i giornalisti e gli scrittori sul fatto che importa molto il modo in cui essi usano le parole; questo perché essi possono influenzare il modo di parlare delle persone e, di conseguenza, le loro azioni.

Alcune semplici regole sono da tenere in mente quando si scrivono storie su persone che hanno una disabilità: innanzitutto occorre evitare di parlare di disabilità e soffermarsi nelle descrizioni quando questo non è rilevante ai fini della storia; bisogna poi evitare i luoghi comuni e le costruzioni stereotipate e non aggiungere interiezioni personali di pietà nella storia.

Sembra che oggi i termini di scelta accettati dalla stampa siano disabile e disabilità, tuttavia è importante l’espressione che con essi si costruisce. L’espressione “i disabili” non è accettata come buon uso, si preferisce che i giornalisti scrivano “persone con disabilità”, frase considerata migliore anche rispetto a quella “persone disabili”. Un gran numero di opuscoli pubblicati spiega infatti che le persone devono venire prima. L’aggettivo “disabile” messo a fianco della parola “persona” sembra infatti classificare e connotare la persona solo dal punto di vista di questo singolo aspetto; l’utilizzo dell’espressione “con disabilità” sottolinea invece come la disabilità sia uno degli aspetti caratteristici della persona.

Molti scrittori e giornalisti scrivono che alcune persone sono “affette da…” o “vittime di…” o “prigioniere di…”. La tendenza è però quella di abbandonare queste espressioni e di utilizzare un linguaggio emozionalmente neutrale. Sono da preferire termini come “su” una sedia a rotelle anziché “confinato” o “prigioniero di” una sedia a rotelle, “con” poliomielite anziché “che soffre di” poliomielite.

Quello che in sintesi si sta cercando di fare in questi anni è abbandonare tutte quelle espressioni che si ritenevano antidiscriminatorie e che, invece, non facevano altro che discriminare ancora di più perché attribuivano un giudizio di valore a dei fatti oggettivi. Forse chiamare le cose con il loro nome e descrivere oggettivamente lo stato in cui la persona si trova potrebbe essere un buon inizio e contribuirebbe a rendere la comunicazione più diretta e onesta soprattutto nei confronti dei primi destinatari: le persone con disabilità.

SIGNORI, IO DIS-SENTO

Handicap, stereotipi e individui

di Franco Bomprezzi

(Pubblicato sulla testata online dell’Enel «Golem, l’indispensabile», e sulla rivista DM – n. 148, marzo 2003, pp. 27-28 – col titolo «Vorrei un eurodisabile!»)

Un fantasma si aggira per l’Europa: l’anno internazionale delle persone come me. Ossia delle persone con disabilità. Incombiamo come una minaccia, zombie che premono dai teleschermi all’ora di cena, con i nostri problemi minuti, con la nostra pretesa di vivere una esistenza normale. Bruttini da vedere, molto spesso. Con le mani avvinghiate a ruote smisurate di carrozzine che traballano su marciapiedi sconnessi. O con la testa che oscilla sotto gli impulsi incontrollabili di una spasticità, confusa ancora adesso con la mancanza di intelligenza. Oppure ancora con le pupille che vagano imbizzarrite, da destra a sinistra, di persone non vedenti che non portano più gli occhiali affumicati di un tempo, ma così turbano il quieto vivere di famigliole avvezze ai sorrisi della pubblicità ipernutrita. Per non parlare delle storie “vere” che intristiscono i rotocalchi, invadono i talk show, si espandono nei siti internet, provocando sensi di colpa, ma anche reazioni stizzite di legittimo egoismo edonista.

Siamo un esercito. È bene che lo sappiate, cari navigatori. Siamo tanti, di ogni tipo e qualità. Le statistiche si sprecano e si rincorrono, in una corsa al rialzo che sarebbe benefica solo per le Borse internazionali, se fosse trasferibile per incanto. Trentasei milioni in Europa, il cinque per cento della popolazione, dunque quasi tre milioni di persone in Italia, anzi no, parlano ora di cinque, addirittura sei milioni di cittadini. C’è chi azzarda senza ritegno: “siamo tutti disabili”.
Io assisto a questo fenomeno mediatico non avendo ancora deciso se esprimere soddisfazione o disgusto. Vorrei emigrare in un’isola tropicale per i prossimi dieci mesi, e tornare alla fine del 2003, giusto in tempo per la celebrazione finale, l’apoteosi pubblica, che avverrà in Italia il 3 dicembre prossimo, in una singolare coincidenza con il semestre dell’Unione Europea affidato al nostro Bel Paese, e dunque con il presidente del Consiglio che (facendo gli scongiuri del caso) dovrà parlare di handicap e di disabilità, lui che non ha mai fatto mistero, fino a quando guidava solo le sue reti televisive, dell’assoluta contrarietà alla sola ipotesi di parlare e di mostrare l’handicap, realtà che avrebbero rattristato le famiglie, abbassato bruscamente l’audience, e dunque decimato gli introiti pubblicitari. Lo spettacolo è assicurato.

Devo dire che non ha tutti i torti. È meno ipocrita di altri. Come lui la pensano ad esempio tutti i grandi gruppi industriali del nostro amato Paese, che non hanno mai investito in campagne di comunicazione che in qualche modo prevedessero anche la presenza di questa rilevante fetta di popolazione. Un anziano in carrozzina ogni tanto può anche scivolare in onda senza che nessuno se ne accorga, ma una giovane ragazza paraplegica non riuscirà mai a pubblicizzare una marca di jeans, come avviene da tempo negli Usa.

Diciamo la verità. In Italia la cultura della disabilità è cresciuta come in un ghetto. Ci parliamo tra di noi. Io sono un giornalista, è vero, lo ammetto. E forse anche questo è un segno di disabilità. Ma mi accorgo che ogni volta che cerco di spiegare ai miei colleghi che cosa significhi vivere e convivere con un handicap, sono costretto a parlare a lungo, a citare esempi, a sviluppare argomenti, ad enumerare leggi, a raccontare aneddoti curiosi. Perché i miei colleghi, in fin dei conti, pensano che tutto sia risolto, che tutto vada bene.

Le barriere architettoniche? Ancora? Ma non sono state abolite per legge? Certo, le autostrade sono ingombre di quel simbolo idiota, quell’omino stilizzato che non muove mai un braccio, che non ha un’espressione ma soltanto un’enorme ruota. La parte per il tutto, si chiama metonimia, se non erro. Io sarei come lui? Ma mi avete visto? Barba grigiastra, capelli altrettanto, pancia prominente, gambe di lunghezza differente; sono una specie di puffo a rotelle, che da cinquant’anni si muove come può, senza mai rinunciare alla vita, convinto come sono che non posso fare altrimenti, e che questo è il mio destino, e che sarebbe stato assai meglio averne uno diverso, ma che, insomma, tutto sommato, poteva anche andarmi peggio.

Ma quell’omino stilizzato non lo sopporto più. Non mi rappresenta. È uno stigma che non accetto. La scuola? Ma non avete gli insegnanti di sostegno? Il lavoro? C’è il collocamento mirato. E poi avete i parcheggi riservati, i servoscala, i servizi igienici chiusi a chiave solo per voi, i congedi parentali, l’indennità di accompagnamento, le badanti, l’esenzione dal ticket, l’Iva ridotta sull’acquisto delle automobili e anche sul computer… Insomma, diciamo la verità: essere persone disabili, oggi, è quasi una fortuna. Discorsi che ho sentito, parole pronunciate senza scherzare, con convinzione assoluta, anche da persone assennate e colte.

Non è vero? Sto scherzando? Io temo invece che una larga parte dell’opinione pubblica stia pensando proprio che questa cosiddetta “fascia debole” sia fin troppo tutelata. Non a caso si comincia a far strada, proprio in questo magnifico e progressivo 2003, l’idea di ritornare alle scuole speciali, di favorire i laboratori protetti, le residenze assistite (una volta si chiamavano “istituti”). Insomma lo scarto fra le leggi e il senso comune, la differenza che passa tra il buonismo e la realtà dura “on the road”, il paradosso di una società ipertecnologica che non è capace di fornire soluzioni intelligenti neppure per alzarsi dal letto, se si è soli in casa, mi sembra che stia diventando palese e palpabile, e richieda una riflessione obiettiva, globale, culturalmente accettabile.

Il dis-incanto (è curioso davvero come questo prefisso “dis” possa assumere valenze diverse a seconda del contesto) nasce in me dalla sensazione che la prossima stagione porterà alla ribalta la versione “business” della disabilità: ossia sul carro delle statistiche roboanti saliranno avventurieri e neofiti, furbacchioni e disperati, uniti dalla speranza di riuscire a trasformare il letame in diamanti (parafrasando De Andrè). Tre milioni di cittadini sono un target invidiabile per chiunque voglia mettersi in affari. Possono interessare alle assicurazioni, agli albergatori, ai venditori di ausili, ai costruttori di alloggi pubblici, ai fornitori di servizi, a chiunque sia convinto di avere la bacchetta magica per risolvere problemi che invece sono complessi e sfaccettati.
Non esistono le persone disabili. Esistono le persone. I singoli, ognuno con la propria realtà, le personali aspettative di vita, i differenti livelli di cultura e di censo.

Basterebbe, questo sì, applicare l’articolo 3 della Costituzione, che non prevede discriminazioni fra i cittadini. Ora si parla del trattato di Amsterdam dell’Unione Europea (articolo 13), ma la nostra cara vecchia Costituzione repubblicana avrebbe già tutto l’occorrente per garantire pari opportunità anche a chi, come me, ha sempre dovuto lottare “un po’ di più”, ha dovuto impiegare ogni giorno qualche ora di troppo per fare le medesime cose degli altri.
Quando ero più giovane avevo la curiosa ambizione di occuparmi, da giornalista, di tutto fuorché dell’handicap. Dicevo ai direttori: “È come se chiedeste alle colleghe donne di occuparsi solo di ciò che riguarda la condizione femminile”. Mi hanno dato retta: ho fatto il capo della cronaca (al “Mattino” di Padova), e il capo dei servizi culturali, ma anche il cronista, agli inizi, faticando non poco, ma convinto di essere una persona normale, solo con qualche problema di mobilità in più. Allora (anni Ottanta) non c’erano molte leggi a tutelarmi. E io riuscivo tranquillamente ad andare allo stadio in tribuna centrale, magari facendomi aiutare dagli amici per salire qualche gradino; oppure andavo a teatro, senza essere relegato negli “spazi per voi disabili”; seguivo i concerti dei miei beniamini senza dover essere scortato da un “accompagnatore”. Pagavo il biglietto, e mi sentivo libero. Oggi sono protetto, sono considerato una categoria speciale, ho timbri e certificati. E mi sento un po’ più triste e meno libero.

Una via d’uscita? Usare il 2003 per rompere gli schemi e le barriere culturali, per aprire un dibattito trasversale fra culture impegnate nella difesa dei diritti di tutti. Essere disabile in Italia, oggi, non è la stessa cosa che esserlo in Sudan, o in Iraq, o in Palestina. Questo, semmai, è il nostro vero privilegio, del quale le persone disabili italiane spesso non si rendono conto, paragonando se stesse al modello americano (spesso enfatizzato, perché si dimentica che accanto a indubbi successi nel campo della mobilità, gli Usa presentano rispetto a noi problemi assai gravi di integrazione sociale e di assistenza sanitaria). Vorrei insomma un EuroDisabile meno convinto di dover accampare ulteriori diritti, e più impegnato a sostenere semplicemente la propria identità di persona, di cittadino qualunque, non sempre buono, non sempre gradevole. A volte, per fortuna, anche insopportabile.

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