Introduzione. L’occasione di crescere

di Simona Lancioni


«C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.»

(Danilo Dolci)


Un colpo di genio! In un’unica occasione li abbiamo scandalizzati tutti. Un esito involontario, se vogliamo dirla tutta, ma comunque di grande impatto. Scherzo. Però quando mi hanno raccontato che il filmato proiettato da Antonietta Laterza all’interno dello spettacolo «Pelle di sirena», promosso dal Gruppo donne nell’ambito delle Manifestazioni nazionali UILDM, aveva suscitato scandalo, mi è venuto da ridere. Che nel 2011 la rivendicazione della libera espressione del desiderio sessuale da parte di una donna (disabile o meno) potesse ancora turbare gli animi non lo avevo neanche preso in considerazione. Ed è proprio per questo che né io, né le altre del Coordinamento del Gruppo donne UILDM, abbiamo sentito l’esigenza di visionare preventivamente quel filmato. Per noi quello era (ed è) semplicemente un prodotto artistico realizzato da una donna con disabilità. E’ stata una valutazione errata: se lo avessimo visto prima avremmo potuto avvisare i presenti che lo spettacolo era adatto ad un pubblico adulto. E questa era – lo abbiamo capito col senno di poi – una raccomandazione necessaria. Ma di certo, anche se lo avessimo visionato in anticipo, non avremmo chiesto ad Antonietta di modificare il suo pensiero e la sua narrazione.

In questa introduzione non entro nel merito degli avvenimenti. Troverete più avanti la cronaca dell’evento curata da Gaia Valmarin, una breve riflessione della stessa Antonietta, diversi commenti delle persone che il filmato lo hanno visto, e le opinioni di chi, non avendolo visto, ha comunque voluto dire la sua su come, a proprio giudizio, sarebbe corretto parlare di sessualità e disabilità. Qui voglio soffermarmi sull’importanza di ascoltare storie – come quella di Antonietta –, che possono anche sembrare scomode e troppo forti, ma la cui narrazione è invece necessaria.

Chi si occupa di donne con disabilità sa molto bene che non esiste un archetipo di donna disabile, che queste donne sono tutte diverse, che hanno disabilità differenti, storie personali dissimili, caratteri distinti, che non ce n’è una che le possa rappresentare tutte. Alcune di queste donne si sono realizzate nel lavoro, altre nello sport o nell’arte, altre ancora si sono create una famiglia, alcune parlano di vita indipendente e di percorsi di autonomia, molte sono impegnate in battaglie civili, ma ci sono anche donne disabili che non si sentono realizzate affatto e raccontano le loro difficoltà, le fatiche, le violenze, le discriminazioni, le solitudini. Altre, infine, ultime tra le ultime, non hanno neanche la possibilità di raccontare. Penso che il compito del Gruppo donne sia quello di cogliere tutti questi aspetti. Se raccontassimo solo alcune cose e non altre non saremmo oneste, dovremmo negare ad alcune donne la visibilità e la parola che diamo ad altre. Ciò sarebbe discriminate e, nei fatti, comporrebbe una censura. E’, lo ribadisco, una questione di onestà. Raccontare solo i problemi e le difficoltà significa negare la speranza e l’esistenza di situazioni serene e gioiose. Per contro, raccontare solo i successi, le conquiste, i traguardi raggiunti significa negare e nascondere «l’assurdo ch’è nel mondo», e inficiare la possibilità di rendere quel mondo – il nostro mondo – un po’ meno assurdo. Infatti è molto difficile cambiare ciò che ci rifiutiamo anche solo di vedere.

Penso che per cogliere tutta la realtà dobbiamo imparare a metterci in ascolto, e mettere in conto che non sempre ciò che ascolteremo sarà indolore. Sarebbe anche utile cercare di non giudicare le scelte altrui, specialmente se sono distanti dalle nostre. La qual cosa diventa particolarmente necessaria quando si parla di sessualità.

Credo che con un esempio questi concetti possano diventare più chiari.

Paolo Henry, già responsabile del Progetto di superamento dell’Ospedale psichiatrico di Collegno e docente di Psicologia dell’handicap e della riabilitazione all’Università di Torino, racconta il proprio sconcerto quando scoprì che due delle sue pazienti, nel processo di passaggio da una situazione di reparto (in manicomio) ad una casa propria, ebbero un periodo nel quale si sono prostituite. Una di loro gli diede la seguente spiegazione di quella parentesi: «dottore, lei non ci crederà» infatti Henry non ci credeva «ma sapesse come è stato importante per me avere qualcuno che pagava per avere me»*.

A questo punto possiamo bollare questa narrazione come un accadimento particolare che non può considerarsi rappresentativo, che non ci tocca direttamente e che, pertanto, possiamo permetterci di eludere: probabilmente la signora in questione “era solo una fuori di testa”. Oppure possiamo metterci in ascolto e scoprire qualcosa di inatteso. Viviamo in una società che rimanda ad alcune persone un’immagine di sé stesse talmente degradata da indurle a pensare che persino l’esperienza della prostituzione possa essere riabilitante e utile a ricostruire l’autostima. E’ spaventoso (nel senso che mette paura), ed è sicuramente un caso limite (dovrebbe essere contenuto il numero di persone tanto fragili da intraprendere percorsi così estremi). Ma non possiamo dire che la cosa non ci riguardi. Ogni volta che pensiamo che una persona non possa essere attraente e che non sia capace e degna d’amore, ogni volta che neghiamo o sminuiamo il bisogno di qualcuno di esprimersi anche sessualmente, ogni volta che riteniamo che, dal momento che non abbiamo le risposte, non è lecito nemmeno formulare le domande, in tutte queste circostanze rimandiamo a queste persone un’immagine di sé svilita e deformata dai nostri pregiudizi. E anche quando gli esiti non sono quelli estremi a cui sono giunte le pazienti delle quali racconta il dottor Henry, stiamo comunque arrecando un’offesa che può generare sofferenza e sfiducia. Ciò ci dice qualcosa sulle persone in questione, ma ci dice anche (o dovrebbe dirci) molto di più su di noi.

Mettere a fuoco che i nostri comportamenti possono arrecare un danno mina la nostra autostima e la nostra sicurezza, ma ci fornisce anche un’indicazione positiva. Possiamo sempre cambiare comportamenti. Possiamo imparare a sognare gli altri come ora non sono. Possiamo sognarli come potrebbero essere se qualcuno desse loro fiducia. Possiamo dare e darci l’occasione di crescere.


*P. Henry, Il problema della prevenzione delle gravidanze indesiderate nei servizi di salute mentale, in F. Veglia (a cura di), Handicap e sessualità: il silenzio, la voce, la carezza, 3. ed., Milano, F. Angeli, 2003, pag. 67.

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