Sezione seconda

5. Come ne scriviamo

Tutte le indagini comportano delle operazioni di sintesi. Si tratta di un passaggio obbligato che implica inevitabilmente la perdita di alcune informazioni. Nella prima sezione di questo lavoro abbiamo proposto le sintesi dei risultati ottenuti con il lavoro di monitoraggio e le abbiamo accompagnate con alcune considerazioni critiche. Gli articoli sono diventati numeri, i loro contenuti sono diventati categorie analitiche. Ciò è utile per descrivere il fenomeno che abbiamo scelto di studiare ma ci dice ben poco sull’impostazione degli articoli, sui toni utilizzati, sui quei nessi logici attraverso i quali si dipanano i pensieri, sull’impatto comunicativo di ogni documento. In poche parole, nello sforzo di quantificare abbiamo perso un po’ di qualità.

In questa sezione ci proponiamo di recuperare alcuni elementi importanti che abbiamo dovuto trascurare nella prima parte di questo lavoro. Per ciascuna rivista abbiamo selezionato alcuni brani e li abbiamo riproposti in questa parte della nostra esposizione accompagnati da una breve presentazione. Gli scopi sono quelli di dare un’idea del modo di porsi di ciascuna rivista, di fornire uno strumento di verifica e di approfondimento e di rendere meno asettica questa indagine. I brani selezionati non sono molti e sono stati individuati a titolo esemplificativo. Alcuni sono stati ripresi in versione integrale, altri in versione ridotta per ragioni di spazio. Abbiamo dovuto scegliere e non è stato facile.

Ciascuno di questi articoli ha un suo spirito, un suo messaggio, uno spunto di riflessione che merita di essere raccolto e condiviso.

5.1 DM Periodico della UILDM (rivista nazionale dell’Associazione pubblicata a Padova)

Pensieri infiniti

di Maria De Vivo

(tratto da “DM Periodico della UILDM”, febbraio 1995, n.117, pag.8)

In tutta la ricerca sono solo due gli articoli scritti da donne che hanno scelto di accompagnarsi a una persona con disabilità. Questo che proponiamo è uno dei due. Tra gli elementi degni di nota segnaliamo il cenno ad un fenomeno di cui si parla abbastanza poco: legarsi a una persona con disabilità qualche volta vuol dire anche rivedere i propri rapporti con le altre persone, specie con quelle significative (ad esempio i propri familiari).

Amo un ragazzo, Nello. Che è disabile. Ma io non lo considero tale. Il concetto di disabile è molto ampio e personalmente ritengo il vero disabile una persona apatica, pigra, indifferente al mondo che lo circonda, senza ambizioni. Nello invece ha reagito alla sua malattia, la distrofia, non lasciandosi abbattere e ha continuato ad andare avanti. Certo non è facile, le difficoltà sono tante, ma anche l’impegno e la forza di volontà sono grandi, tali da fargli raggiungere diversi obiettivi, primo fra tutti nel campo dell’arte. Infatti è un valente pittore e ha ottenuto premi e riconoscimenti in vari concorsi e mostre personali a cui ha partecipato all’Italia e all’estero.

E’ un ragazzo dolcissimo, sensibile, romantico, pieno di fantasia e creatività. Sa regalarmi continue emozioni, sempre nuove, e diverse, e insieme a lui vivo esperienze stupende e interessanti, ridiamo, scherziamo, ci divertiamo tanto. Il nostro amore è una continua avventura, magica, è insomma un amore speciale.

Capita anche di discutere, pure animatamente, ma poi ci ritroviamo ancora più innamorati e uniti di prima. All’inizio ho avuto contrasti all’interno della mia famiglia, ma bisogna lottare e perché no, soffrire per ciò in cui si crede e io a questo amore ci credo, tanto da superare anche il giudizio degli altri che considerano la nostra storia un po’ anomala. Ma gli altri non possono sapere della sua tenerezza, del calore delle sue braccia, del sapore dei suoi baci, del fascino delle sue parole. Io ho seguito il mio cuore senza lasciarmi condizionare e non ho rimpianti, perché l’amore, che è il motore della vita, la forza che sostiene l’universo, va oltre i confini, oltre i pregiudizi.

Scegliere il proprio destino

di Lucia Lucchesi

(tratto da “DM Periodico della UILDM”, aprile 1996, n.122, pag.16)

La vita indipendente è stata definita come una filosofia di persone con disabilità che si propongono pari opportunità, rispetto di se stesse e autodeterminazione. Coloro che aderiscono a questo movimento attribuiscono allo Stato il compito di garantire l’indipendenza, e trovano in questa caratteristica la discriminante tra diritto e concessione. L’articolo che presentiamo è fortemente centrato sull’autodeterminazione della donna con disabilità. Manca la rivendicazione nei confronti dello Stato, probabilmente anche perché all’interno della UILDM la riflessione sul tema della vita indipendente si è sviluppata in modo collettivo solo negli ultimi due anni. Prima era patrimonio culturale di pochi. Questa particolarità naturalmente non sminuisce l’importanza di questo contributo, soprattutto se consideriamo che, in tutta l’indagine, i temi dell’autodeterminazione e della vita indipendente delle donne disabili sono trattati in modo esplicito solo in due articoli.

La donna è stata vista nella cultura antica, e purtroppo ancora adesso, specie da noi del sud – nonostante i cambiamenti e le evoluzioni sociali – come “l’angelo del focolare” o comunque come la persona che per la maggior parte della giornata e della vita si occupa della casa, dei figli, della gestione in genere de ménage familiare.

In questo senso la donna disabile è doppiamente svantaggiata nel tentare di costruire una propria vita o un rapporto affettivo di coppia, per tutte le implicazioni che tale condizione porta con sé.

Ogni uomo infatti anche se innamorato della propria donna – supponiamo disabile – pretenderà sempre di avere al mattino, prima di uscire per il lavoro, le camicie super-stirate, la colazione pronta e tutto il resto lindo e sistemato; oppure tornando da lavoro, il pranzo pronto e così via. E se anche, fortunatamente, egli fosse ben intenzionato a dare una mano in tutte queste faccende, la sua famiglia non sarebbe certo così disponibile ad accettare una situazione del genere; la coppia, o in ogni caso solo il figlio “pazzo”, sarebbero continuamente sottoposti a stress, ostacoli di ogni genere, ricatti morali e via di questo passo.

Quindi la donna disabile dovrà farsi carico di tutta questa situazione “anomala” e pesante causata, anche se non volutamente, da lei stessa e si addosserà tali sensi di colpa da preferire forse di rimanere sola. E questo è un rischio presente anche di fronte ad un legame forte e fondato su un vero sentimento di amore, stima reciproca, rispetto.

Spesso nemmeno la famiglia della ragazza vede di buon occhio un eventuale rapporto affettivo della figlia disabile, proprio perché è la stessa famiglia a non credere fondamentalmente alla possibilità di una relazione sincera e disinteressata tra la propria ragazza, portatrice di handicap, e il suo uomo: il bombardamento di super-efficientismo, a mio avviso tutto apparente, di perfezione psico-fisica, anche questa tutta esteriore, che subiamo quotidianamente, non giocano di certo a nostro favore.

Ben diverso sarebbe invece se la famiglia, anziché ostacolare il figlio o la figlia “per il suo bene”, aiutasse la coppia in varie incombenze, cercando di consentire alla coppia di sviluppare al massimo la propria autonomia e indipendenza.

La donna disabile che lavora ha infatti la possibilità di sentirsi realmente più emancipata, soprattutto perché autonoma dal punto di vista economico..

Quando poi svolge un lavoro di responsabilità o in un posto pubblico – dei cui sevizi la gente ha bisogno – questo può diventare un modo per allargare la cerchia dei rapporti sociali e, perché no, per sentirsi anche importanti.

E potrebbe essere utile per lo stesso rapporto di coppia, perché con una propria indipendenza economica la donna potrebbe pagarsi un aiuto domestico per risolvere le proprie difficoltà di gestione pratica della casa (spazzare, spolverare, lavare la biancheria, stirare, cucinare e così via).

La nuova famiglia dovrebbe quindi accettare senza problemi un aiuto, perché questo potrebbe liberarla da quei pesi logistici, organizzativi e psicologici che influiscono sulla stessa qualità del rapporto. E si dovrebbe anche cercare di instaurare una buona comunicazione e sintonia, con chi “aiuta”, per evitare conflittualità e migliorare la stessa armonia del proprio rapporto di coppia, la quale non deve in nessun caso essere limitata nella sua intimità.

Insomma – credo lo si sia ormai capito – penso che la donna disabile – in quanto donna, e come ogni altra donna – debba fare la propria scelta di vita, nel senso che solo lei potrà decidere o meno di avere un rapporto affettivo, una famiglia, un lavoro senza che qualcun altro abbia già scelto prima il suo destino.

Il pregiudizio non ha sesso

di Oriella Orazi

(tratto da “DM Periodico della UILDM”, novembre 1996, n.124, pag.17)

Abbiamo definito il pensiero espresso in questo documento come un “pensiero divergente” perché si pone in contrasto con l’orientamento generale dei documenti raccolti in questa indagine. L’autrice non nega che le presone disabili siano soggette a pregiudizio da parte della società. Ma ritiene che tale trattamento riguardi in ugual misura sia gli uomini che le donne. Senza nulla togliere alla precisa descrizione degli stereotipi maschile e femminile che ancora sopravvivono nella nostra società, in realtà gli studi su queste tematiche dimostrano che le donne con disabilità hanno, rispetto agli uomini nelle stesse condizioni, maggiori difficoltà a studiare, a trovare un lavoro, a crearsi una famiglia, e sono più esposte al rischio di povertà, emarginazione e abusi sessuali e non (si veda ad esempio: Disabled Peoples’ International, 1997). Nonostante l’impostazione teorica di questo articolo sia in contrasto con quella di questa indagine scegliamo di proporvelo certi che nessun progresso, soprattutto culturale, si possa realizzare senza il contributo di chi guarda il mondo in modo diverso ed è disposto a confrontarsi in un dibattito aperto. In ciò l’importanza di questo documento.

Leggendo in DM 122 l’articolo di Lucia Lucchesi intitolato Scegliere il proprio destino sono stata indotta a fare alcune considerazioni.

L’articolo è interessante e scritto nella prospettiva di chi vuole che la disabilità – ovvero chi la vive -venga sì guardata in faccia e quindi affrontata con cognizione di causa, senza che però diventi condizione preclusiva a quel tipo di scelte o esperienze che, solitamente, sono viste come tabù o alte vette da scalare, come la vita matrimoniale e altro ancora…

Condivido con Lucia quanto detto sul discorso della necessità di un lavoro retribuito per la donna disabile, tale da permetterle di emanciparsi dallo stato di segregazione e di favorirle quindi un “minimo di autonomia” per dirigersi verso le proprie scelte. Così come condivido la possibilità da parte della coppia dove vi sia un disabile – o tutti e due – di ricevere degli aiuti, veicolati ad esempio attraverso la famiglia d’origine e tanto più attraverso le strutture sociali, affinché uno svantaggio che può pesare per il buon andamento della coppia – come lo svolgere le attività casalinghe – possa essere superato.

Ciò che invece mi trova dissenziente è quel porre, da parte di Lucia, l’accento sulla discriminazione subita in particolar modo dalla donna disabile. E il volerne parlare non vuole certo essere da parte mia una sterile polemica o un semplice “dir la propria”: ciò che desidero invece è semplicemente allargare il discorso su temi che ritengo vadano analizzati sin nelle pieghe più profonde.

Non va dimenticato che siamo soltanto agli inizi nel parlare di realtà – se si vuole ovvie e scontate – ma solo per chi… disabile non è!

Ecco, io credo che il soffermarsi ad individuare quali siano gli svantaggi dell’essere donna, per chi è già disabile, non debba distoglierci da una più attenta analisi di come il disabile in assoluto – al di là del fatto che sia un uomo o una donna – debba affrontare tutta una serie di barriere (e non certo quelle architettoniche!), per cui il suo essere maschio o femmina non pesa a parer mio in modo incisivo.

Ogni volta infatti che certi ruoli (in questo caso quello maschile e femminile) vengono definiti in modo rigido, diventano come vestiti troppo stretti che possono lacerarsi ad ogni movimento e non consentono alla disabilità “di indossarli” senza diventare un ulteriore elemento di rottura…

Cerco di spiegarmi meglio. La società, o la cultura che dir si voglia, nei suoi cardini più rigidi ha confezionato un modello comportamentale – e quindi un ruolo da svolgere – netto, ben preciso e privo di sfumature sia per il maschio che per la femmina, ruoli tali per cui in ambedue i casi la disabilità riscia di infrangere ulteriormente, e in modo vistoso, tali modelli preconfezionati.

Perché se è pur vero che la donna da sempre è stata vista come “colei che accudisce la casa, il marito e i figli” e quindi per essere moglie o compagna sembra d’obbligo che possieda i presupposti per svolgere “tale missione”, è altrettanto vero – sempre attingendo dalla cultura del “così è sempre stato” – che il maschio (pur con tanti vantaggi!) è considerato e pensato come colui che da sicurezza sia sul piano fisico che economico della donna, nonché della famiglia. E questi sono requisiti ai quali certo mal risponde il disabile maschio…

Lucia denuncia una certa mentalità del Sud per la quale la donna, vista in modo prioritario come “angelo del focolare”, poco si presta, per quella stessa mentalità, a vedere “al suo posto” una donna disabile, nel caso in cui questa facesse la scelta di sposarsi… Ricordando, ahimè, che tale mentalità non conosce latitudini o confini, vorrei chiedere a Lucia come pensa che, sempre in seno a quella mentalità “stretta e retriva” che lei denuncia (a ragione), verrebbe visto un maschio disabile come marito delle proprie figlie o sorelle… Lì dove, in modo particolare il “maschio-marito” ha il ruolo portante di capo, capo-famiglia e di chi dà sicurezza d’immagine alla famiglia e di chi, pur con la forza, è pronto a difendere l’onore… Certo mal si addice tutto questo a chi – naturalmente per le sole apparenze – non può farsi garante di tali requisiti!

Credo che il pregiudizio nei confronti dei disabili a la difficoltà a pensare che essi stessi possano gestire la propria vita, le proprie scelte – dal lavoro, agli affetti, alla sessualità, alle idee – sia talmente radicato e cieco da non guardare in faccia al sesso di chi è disabile.

Come uscirne? Certo non vi sono soluzioni facili Il percorso dell’emancipazione da quella sorta di limbo che ha costituito e forse costituisce ancora l’esistenza di molti disabili è stato senz’altro imboccato, non resta che continuare a credere che ogni individuo, disabile o meno, femmina o maschio, abbia in sé il diritto una vita al suo top e che in prima persona sia necessario operare in tutte le direzioni perché questo possa avvenire in un modo semplice più compiuto e armonico, per essere artefici di se stessi e delle proprie scelte.

5.2 Finestra aperta (rivista pubblicata dalla Sezione UILDM di Roma)

Con l’aiuto di papà

Parla una mamma disabile

di Alessandro Brancozzi

(tratto da “Finestra aperta”, luglio 1999, n.7, pag.7)

Dai dati complessivi emersi da questa indagine risulta che il ruolo materno è stato trattato in 25 articoli: 19 di essi incentrati sull’aspetto di cura dei figli e 6 sulla scelta di intraprendere e/o condurre una gravidanza. Nella parte dedicata all’analisi dei dati abbiamo notato che 18 dei 19 articoli relativi all’esperienza di cura dei figli riguardano le “donne che assistono”, mentre le donne con disabilità tendono a concentrarsi sul secondo aspetto (la scelta sulla gravidanza). Anche l’articolo che presentiamo tocca quest’ultimo aspetto, ma tratta anche in modo specifico del ruolo di cura: per questo motivo lo abbiamo collocato nella categoria “Esperienza di madre” (relativa appunto al ruolo di cura), e abbiamo scelto di riproporvelo in ragione della sua unicità (almeno nel periodo considerato nella nostra indagine).

“E’ ovvio che abbiamo tenuto in considerazione la mia disabilità nello scegliere di di avere Emanuela. Ne ho parlato con Massimo, mio marito. Quello che noi pensiamo è che con un po’ di organizzazione le gioie che può darci nostra figlia cancellano qualsiasi tipo d’ostacolo”.

Così Antonella ci parla della difficile scelta di essere mamma, difficile perché pur riuscendo a deambulare, lei ha una patologia che le comporta delle difficoltà motorie. Ma tutto ciò non le impedisce di essere una mamma come le altre. A lei abbiamo rivolto alcune domande.

Ci sono stati momenti difficili durante la gravidanza e il parto?

“C’è stata una iniziale minaccia d’aborto, dal terzo mese fino al parto ho avuto i tipici problemi legati alla gestazione. Il parto è stato cesareo, sotto consiglio del neurologo, per il resto ero piuttosto tranquilla perché ero molto seguita dal medico”.

E’ mai successo qualche evento imprevisto nelle quotidiane attività di mamma che la disabilità non ti ha permesso di affrontare?

“Una volta presi un grande spavento perché Emanuela scappò dal passeggino, quello però fu un evento isolato, infatti quando devo uscire aspetto che ci sia mio marito. Lui è un punto di riferimento. Per il futuro non sono preoccupata perché la scuola dove andrà Emanuela è molto vicina a casa, perciò non sarà un problema accompagnarcela”.

Ci racconti una tipica giornata con tua figlia?

“Appena svegliate le faccio fare la colazione, poi stiamo insieme, giochiamo e se capita guardiamo un po’ la tv. Lei pranza con me e quando Massimo torna dal lavoro sta con lui, così io posso pensare alle faccende domestiche. Per il bagnetto aspetto mio marito così sono più tranquilla”.

Siamo alle solite, chi può dire che una giornata tra Antonella e sua figlia sia meno `normale’ di una famiglia in cui non esista la disabilità?

Più belle senza aiuto

Qualche espediente per truccarsi da sole

di Maura Peppoloni

(tratto da “Finestra aperta”, ottobre 1998, n.10,pag.22)

La disabilità e l’handicap comportano delle difficoltà, questo è un dato oggettivo. Ciò non significa che bisogna sempre parlarne in modo problematico. La vita delle persone con disabilità (non solo delle donne) è fatta anche di quotidianità. Questo articolo descrive con molta semplicità uno di questi gesti quotidiani che si caratterizza per essere ancora prevalentemente femminile (almeno nella cultura italiana): il truccarsi.

Noi donne disabili forse non siamo in grado di mangiare da sole, scrivere o tenere in mano il telefono, ma quando si tratta di truccarci non esistono difficoltà o handicap di sorta: ci dobbiamo riuscire da sole.

Il più piccolo residuo di movimento unito a delle tecniche molto personali ci fanno raggiungere l’effetto sperato.

Pensate che sia un’esagerazione? Forse si, ma non poi così tanto: per molte donne il trucco è importante, serve per sentirsi in ordine e sicuramente più carine. Il maquillage è però soprattutto questione di gusti, ed è per questo che si cerca di farsi aiutare il meno possibile.

Una delle maggiori difficoltà riguarda soprattutto tutte quelle operazioni che richiedono movimenti ampi, quali spalmare sul viso fondotinta, ciprie e phard vari. In questi casi è bene farsi sostituire da una `vice truccatrice’, per poi riprendere il controllo della situazione e procedere alla cura di zone più delicate e circoscritte quali occhi e labbra.

Generalmente sono consigliati rossetti, matite e pennelli affusolati e che permettono una migliore presa; un tipo di articolo, quest’ultimo, molto diffuso e reperibile senza difficoltà in qualsiasi negozio di cosmesi.

Per quanto riguarda gli ombretti, sono da preferire quelli in polvere, molto più facili da stendere e da sfumare. Stendere il mascara, infine, è il momento più delicato. L’operazione può richiedere molto tempo e lo spazzolino potrebbe sfuggire: è quindi opportuno scegliere un mascara con buona impugnatura.

Comodità e maneggevolezza degli strumenti utilizzati sono condizioni indispensabili per ottenere un buon risultato. E’ perciò consigliabile passare un po’ di tempo in profumeria, cercare una propria linea di prodotti e non abbandonarla, magari spendendo un po’ di più, piuttosto che trovarsi a che fare con prodotti che non rispondano alle nostre esigenze.

5.3 HP (rivista pubblicata dal Centro Documentazione Handicap di Bologna)

Una lunga camminata sotto la pioggia

di Rosanna Benzi

(tratto da “HP”, novembre-dicembre 1999, n.72, pag.15-19)

Quello che proponiamo di seguito è un brano tratto dal testo di Rosanna Benzi, “Il vizio di vivere. Vent’anni nel polmone di acciaio” (a cura di Saverio Paffumi, 1989, Rusconi). E’ facile trovare in questa rivista brani tratti da libri: fa parte di quell’impostazione editoriale che in sede di analisi abbiamo denominato dal “taglio intellettuale”. Rosanna Benzi non è un personaggio “comune”, prova ne è che ancora oggi, ad anni di distanza dalla sua scomparsa, continua ad essere una figura di riferimento per molte persone con disabilità. Purtroppo, per ragioni di spazio, siamo costretti a presentarvi questo brano in una forma ridotta rispetto a quella pubblicata dalla rivista.

Sapete come è iniziato in Italia l’anno dell’handicappato? Con l’applicazione dell’IVA sulle carrozzine, a decorrere dal primo gennaio. La tolsero agli arazzi, mi pare, e la misero sulle carrozzine. Spostamenti di pura tecnica fiscale, mi dirai, ma intanto… Ti chiedi al Governo ci sono dei bontemponi! Noi siamo stati contrari all’anno dell’handicappato. Sono buffonate. Cose che lasciano il tempo che trovano. Buone solo per lavare la coscienza agli ipocriti. Come sono buffonate l’anno della donna, del povero, del disgraziato… e chi più ne ha più ne metta. Tanta retorica e non uno dei problemi viene risolto.

L’emarginazione è un fatto politico. E’ il frutto di una certa organizzazione sociale, dove il valore delle persone è stabilito in base al rapporto che esse hanno con il profitto. Gli individui più deboli sono meno importanti, e la società tende a dimenticarli. Ma c’è anche una grossa componente culturale. Paesi non meno “capitalistici” del nostro hanno molto più rispetto, più attenzioni. E’ sufficiente andare in Francia o in Germania per rendersene conto. O almeno questa è l’impressione che mi son fatta, ascoltando e leggendo. […]

Abbiamo progetti bellissimi, concezioni assistenziali che sfiorano la perfezione. All’estero invidiano le nostre teorie, la nostra fantasia. Però non invidiano i nostri ospedali, le nostre strutture di base. Cosa volete che vi dica: sono vent’anni e più che vivo in ospedale. Le tecniche sono migliorate, i progressi scientifici ci sono stati. Eppure oggi i malati si lamentano più di ieri, i rapporti con i medici mi sembrano più freddi, più distaccati. Chi ingesserebbe più il mio Koala di peluche? (Sì, una sera finsi per gioco col dottor Enrico che il mio Koalino si fosse rotto una gamba. E la mattina dopo lo trovai ingessato. Guarì dopo quindici giorni. […]

Alle volte mi chiedono quale eredità politica e morale vorrei lasciare. Spero che il lavoro che ho iniziato vada avanti. Ecco l’eredità. E che aiuti chi ne ha bisogno a pensare: “Se lei l’ha fatto, vuol dire che si può fare”.

L’idea della morte una volta mi faceva più paura. Forse non si dovrebbe evitare sempre l’argomento, bisognerebbe tentare di parlarne, di accettare l’idea. Io credo nell’aldilà, ma mi sgomenta non sapere esattamente di che cosa si tratta. Come ho raccontato sono stata vicino alla morte due volte. Mi dava angoscia pensare che avrei perduto le cose più semplici: l’acqua fresca, il sole che sorge, gli amici, i giornali del mattino… Mio padre dice: “Se è vero che esiste un paradiso, tu ci andrai subito. E se non esiste nulla non ti devi preoccupare. In un modo o nell’altro non hai niente da perdere.”

E se mi beatificassero, o mi facessero santa? No, tutt’al più potrei rientrare tra i martiri… ma mi farebbe rabbia una fila di handicappati davanti al Signore, non vorrei dover continuare anche lassù le mie battaglie! A parte gli scherzi, del Signore mi fido. I suoi rappresentanti sulla terra mi piacciono un po’ meno. Sul serio: meriterebbe di meglio.

Comunque vorrei lasciare di me il ricordo di una persona con pregi e difetti, un po’ matta, con molta ironia di sé, che amava le cose semplici, e che ha cercato di non fare troppe brutte figure. Ai miei funerali voglio tanti fiori. Io sarò vestita con l’abito lungo (non mi importa il colore) e i guanti lunghi, e avrò un grande cappello. Suoneranno il Silenzio fuori ordinanza, o l’internazionale, devo ancora decidere. Voglio immaginare tutti che piangono. Papà ha deciso che poi tornerò a Morbello. Sono d’accordo.

Ma c’è tempo, signori, c’è tempo!

Quanti anni potrò vivere ancora? Per fortuna è difficile rispondere.

I casi di sopravvivenza in un polmone d’acciaio non sono così numerosi da costruirvi una statistica attendibile. C’è una signora che ha vissuto circa trent’anni in queste condizioni. Io mi preparo alle nozze d’argento, i 25 anni. Abbiamo già pensato alla festa, ai confetti e alle bomboniere: tanti piccoli polmoncini colorati. Ma dipende anche da che vita fai. Per esempio, pare che mi faccia bene uscire ogni tanto con la corazza, ed avere il cervello impegnato, in modo da fuggire l’inedia, la deriva psicologica.

Però non riesco a condurre una vita molto regolata. I professori, scherzandoci sopra, dicono che loro al mio posto sarebbero già morti. E pensare che adesso, soffrendo un poco di diabete, sono costretta a stare più attenta!

Altrimenti :pizza o farinata a mezzanotte, sono ghiotta di tutti i cibi che fanno male, come il salame, i sottaceti, la maionese. Ho fatto un patto con i medici. Che non mi rompano troppo le scatole, se mi sento male peggio per me’ non darò la colpa a loro. Forse non è un patto con i medici. E’ un patto con Dio, che essendo “tutto” ed ogni cosa, è sicuramente anche ghiotto, e quindi mi proteggerà.

La mattina non ho un orario fisso per svegliarmi. Dormicchio fino alle nove e mezza-dieci. Faccio le pulizie, mi cambio, poi arriva il fisioterapista che mi massaggia per favorire la circolazione e far vivere i muscoli… ce n’è bisogno, perché non mi muovo mai e le articolazioni ne soffrono. Se mi piegano, sapete, sto in una scatolina.

Dopo la ginnastica, dipende, vedo qualcuno, chiacchiero, leggo i giornali, o sento musica. A mezzogiorno mangio: poco. Nel pomeriggio e la sera ci si vede per la rivista. Le ultime giornate, prima di “darla alle stampe”, si lavora come ossessi fino alle due di notte. Se invece c’è un po’ di calma, un buco libero, giochiamo a poker. Se sono brava? Vinco. Mi dicono che ho fortuna e, siccome ho degli amici sporcaccioni, non usano la parola fortuna.

Credo di aver raccontato tutto. O almeno le cose più importanti. Ho voluto esprimere anche delle opinioni, perché fanno parte integrale della mia vita. E non per sputare sentenze, sia chiaro. Non ho la verità in tasca solo perché vivo nel polmone. Non l’ho mai preteso.

Sono contenta, lasciatemelo dire, orgogliosa, di non essermi fatta sconfiggere. Non ho rimpianti. Ripeto che sono felice di aver vissuto questi vent’anni, e sono pronta, con serenità, a vivere gli altri. Serenità e allegria. L’allegria è fondamentale, quindi spero che questo non sia un libro triste. La gente non vuole leggere libri tristi, e ha ragione.

Certo non succederà, ma se un giorno tornassi a camminare con le mie gambe, prima di tutto correrei a ringraziare i medici che mi hanno curata, gli amici, le persone che i sono state vicine. Poi vorrei viaggiare: vedere Venezia, Firenze, Parigi, Cuba. Forse un giorno in treno, con la corazza, visiterò davvero Parigi.

E poi vorrei andare da sola sulla spiaggia, in un pomeriggio d’autunno, sul tardi, e fare una lunga camminata sotto la pioggia.

5.4 Il Jolly (rivista pubblicata dalla Sezione UILDM di Bergamo)

Dedicato alle donne rimaste al margine

di Nunzia Coppedè

(tratto da “Il Jolly”, marzo 1995, n.29, pag.8-9)

Il sociologo L. Gallino ha definito la marginalità come la situazione di chi si trova “in una posizione posta al di fuori di un dato sistema [sociale] di riferimento ma in contatto con esso, restando con ciò escluso tanto dal partecipare alle decisioni che governano il sistema a diversi livelli, e che sono prese di solito nelle sue posizioni centrali, quanto dal godimento delle risorse, delle garanzie, dei privilegi che il sistema assicura alla maggior parte dei suoi membri, pur avendo (l’individuo marginale) analogo diritto formale e/o sostanziale ad ambedue le cose dal punto di vista dei valori stessi che orientano il sistema” (L. Gallino, 1978, pag.422).

Possiamo pensare all’emarginazione come al percorso inverso a quello dell’integrazione sociale. Utilizzare la marginalità come chiave di lettura della condizione delle donne con disabilità o di quelle che assistono persone disabili, significa, in prima battuta, chiedersi se le conquiste del femminismo hanno riguardato tutte le donne in ugual misura (domanda che anche l’autrice di questo brano si pone); ma significa anche, in seconda battuta, interrogarsi sui meccanismi e sui processi di esclusione sociale, nonché sull’accesso limitato e differenziato ai sistemi distributivi (quesito che ci poniamo noi).

Spesso la posizione marginale si presta a violenze e abusi di ogni tipo: il brano di Nunzia Coppedè è una testimonianza in tal senso. Per questi motivi abbiamo scelto di riproporlo in questa parte della nostra esposizione. Tra l’altro questo è l’unico brano, tra tutti quelli selezionati in questa indagine, in cui le donne con disabilità e quelle che assistono sono entrambe protagoniste.

Il 1995 è dedicato alle donne, lo ha deciso l’O.N.U. Questa notizia mi ha lasciato perplessa, ma ripensandoci credo che una riflessione sulla realtà femminile va fatta, e non solo per rileggere a distanza di anni il cambiamento culturale, avvenuto dopo l’attività dei collettivi femministi, con l’obiettivo di raggiungere l’ambita parità con il sesso maschile, ma per riflettere su tutte quelle storie di donne che vivono nella povertà, nell’ignoranza, nella violenza, nella malattia, che continuano a subire in silenzio l’arroganza maschile e a sopprimere la loro femminilità.

Mi rende felice pensare che gli anni del femminismo esasperato siano ormai lontani. Oggi, ripensare a quella fase mi fa sorridere, ma senza dubbio è stata necessaria, ha fatto cultura, ha allargato gli orizzonti sociali, ha avviato processi di pari opportunità.

Oggi ne raccogliamo i frutti, si sono ristretti i divari tra uomini e donne, sono molte le donne che occupano ruoli di prestigio, che si realizzano.

Ma questo è vero per tutte le donne? Il femminismo ha cambiato la realtà femminile o ha cambiato la realtà di alcune donne?

Basta un’occhiata ad un quotidiano qualsiasi, un telegiornale, per rendersi conto che gli episodi di violenza carnale sulle donne sono all’ordine del giorno, con violenza barbarica vengono colpite bambine, adolescenti, giovani e anziane; storie inaudite che in questa cultura in trasformazione restano invariabili, stabili, tendendo forse ad aumentare e non a diminuire.

Ma non sono queste le uniche donne rimaste fuori dall’emancipazione femminile; molte altre a causa della povertà, dell’ignoranza, della disabilità o della giovinezza travagliata, sono rimaste al margine, fili d’argento coronano ormai il loro volto, ma non si sono accorte delle variazioni storiche e dei tempi che sono passati. E’ ad alcune di queste che voglio dedicare il mio pensiero.

Maria Rosa

Esile, tutta nervi, con i segni del tempo che è trascorso e che non l’ha risparmiata, tra le rughe che solcano il viso scarno, uno sguardo intelligente, profondo, scruta e studia chi ha davanti. Maria Rosa vive in un paesino di circa duemila anime, si è sempre dovuta arrangiare, da sola ha cresciuto un figlio disabile, poiché il marito l’ha abbandonata subito dopo la nascita di questo.

Maria Rosa è analfabeta, vive per suo figlio, ormai adulto, ma incapace di badare a se stesso. Spera che il suo uomo si sposi, trovi un lavoro; che qualcuno quando lei non ci sarà più si occupi di lui; è convinta che può ottenere tutto questo, chiedendo favori e dando in cambio beni e valori a tutti coloro che promettono di aiutarla a realizzare il suo sogno.

Sono tanti quelli che l’hanno capito, e che promettono e promettono soltanto per ricevere in cambio.

Maria Rosa esce ogni mattina di casa con le borse piene di uova, salami, formaggio, arance, borse pesanti che piegano la sua schiena già mal ridotta, si priva lei dei viveri, ma è convinta che questo è l’unico modo per ottenere qualcosa. E’ il suo linguaggio per chiedere, non conosce la logica dei diritti e si consuma in attesa che si realizzi un sogno che rischia di rimanere tale, poiché suo figlio sta invecchiando con lei.

Non conosco il suo nome

E’ un lunedì come tanti, qualcuno sta guardando la televisione. Passo distratta mentre il conduttore in studio sta presentando un filmato; parte un servizio, ascolto le prime battute e mi fermo impietrita. Il tutto si svolge in un piccolo paesino in provincia di Nuoro. Le interviste scorrono veloci, ancora increduli gli abitanti del paesino, abituati ad una monotonia perenne, raccontano. La protagonista, una signora di settantacinque anni, completamente sorda e muta dalla nascita, viveva sola dopo che i suoi genitori erano morti per anzianità, isolata da tutto e da tutti. Usciva di casa solo per comprare il necessario, nessuno aveva rapporti con lei. Un giorno tre giovani sono entrati di prepotenza nella sua casa e con una atrocità indescrivibile l’hanno violentata ripetutamente, derubata e uccisa.

Carla

Ancora nel fiore della giovinezza, trascorreva le giornate chiusa in casa. La colpa non era solo della malattia muscolare che molto lentamente stava invadendo il suo corpo, qualcuno voleva che lei restasse dentro, sempre disponibile a subire, che non spendesse o nascondesse i soldi. Anche questa è la storia di una donna che abitava in un piccolo paese del Sud. Il fratello, amante dei vizi, voleva tutto per lui e tutti i soldi che entravano in quella casa venivano spesi per comperare ciò che desiderava lui. Il padre, anziano, non prendeva iniziative; la mamma era mora da molti anni. Carla più volte ha dovuto subire l’ira del fratello, le percosse, le notti al gelo perché il fratello la buttava fuori con l’anziano padre. E’ dovuta intervenire la polizia per poterla allontanare di casa.

Ora vive in un altro paese, ha dovuto ricominciare da capo, parla sempre, non sa ascoltare, studia, si sta sperimentando, ha una folle paura di tutto e diffida di chiunque, ha superato i trent’anni, ma è in piena crisi adolescenziale.

Una storia importante

di Maddia Tirabassi

(tratto da “Il Jolly”, settembre 1998, n.43, pag.27-28)

Le riviste specializzate nel settore dell’handicap e della disabilità si caratterizzano per il fatto di trattare spesso le storie comuni di persone altrettanto comuni. Lo abbiamo constatato studiando il tema “donne e disabilità”, ma la filosofia sembra essere la stessa anche riguardo alla trattazione di altri temi. Si tratta di una “cultura della normalità” che non nega la differenza. Chi vive o si cimenta con la disabilità ha qualche problema in più (in ciò la differenza), ma questo non vuol dire non poter fare le stesse cose che fanno gli altri (in ciò la “normalità”), a limite può vuol dire farle in modo diverso.

Quella che presentiamo di seguito è una di queste storie comuni: non vuole fare notizia, vuole fare cultura!

La mia storia con Mauro è iniziata che avevo soltanto sedici anni, ora mi sembrano pochi, allora mi sentivo già grande e pronta per una storia importante; ed importante lo è stata visto che lo scorso anno abbiamo festeggiato i 25 anni di matrimonio. Come fra tutte le copie, sono stati 25 anni di momenti felici e meno felici, sicuramente il mio bisogno fisico del suo aiuto materiale ha fatto sì che la nostra vita si svolgesse con un rapporto molto stretto, nel senso più figurato del termine. Questo ha comportato certo un adattamento reciproco alle esigenze dell’altro. Devo però dire che anche i primi anni di matrimonio, quando la mia autonomia era maggiore, la nostra scelta è sempre stata quella di condividere tutti i momenti del quotidiano.

Come dicevo prima, il mio handicap ci ha portato a fare delle scelte obbligate quale quella per me, ad esempio, di andare due mesi all’anno in Cecoslovacchia per fare fisioterapia; questo per diverso tempo e nei primi anni di matrimonio. Ricordo che io e Mauro ci scrivevamo giornalmente lunghe lettere dove uno faceva all’altro la cronaca minuziosa della giornata trascorsa, delle persone incontrate.

Questo ci faceva sentire più vicini, ma in ogni nostra lettera traspariva quanto pesasse quella lontananza.

La confidenza: anche questo è stato un fattore fondamentale del nostro matrimonio perché, senza voler essere retorica, Mauro è il mio migliore amico, è a lui che ho sempre confidato e confido ogni mio pensiero ed è lui che sopporta le mie malinconie.

Una scelta difficile è stata sicuramente quella di non avere figli: è certamente costata a tutti e due, ma è stata fatta da entrambi in pieno accordo anche perché i medici coi quali ci consigliavamo, a quei tempi, in fatto di distrofia muscolare avevano conoscenze molto limitate.

Altro momento difficile, alcuni anni fa, quando ho avuto due episodi di polmonite che mi hanno portato a fare quasi due mesi di ospedale e Mauro ha trascorso i giorni e le notti accanto a me; certo in quei momenti stai male doppiamente, per la tua salute, naturalmente, e perché vedi il grosso sacrificio che fa chi ti sta accanto.

Tutto questo e tanto altro succede più o meno nella vita di tutti, ma quando capita a te sembra speciale.

Ora la nostra vita scorre nella normalità, solo che l’età e l’abitudine ci porta a continui battibecchi… per un giornale fuori posto, per una luce spenta, per un programma televisivo. Anche questo è normale, vero?!

5.5 L’agenda (rivista del Comitato Regionale Lombardo della UILDM, pubblicata a Monza)

Willebrand, non mi fai paura

di Bianca Folino

(tratto da “L’agenda”, novembre 1996, n.88, pag.22-23)

Anche questa, come quella che abbiamo appena presentato, è una storia comune. Solo che, a differenza della precedente, ciò che viene messo maggiormente in rilievo è il rapporto con la malattia. Abbiamo ritenuto utile inserirla in questa “raccolta ragionata” di brani perché il rapporto con la malattia (o con la disabilità che ne deriva) è uno dei temi più frequenti nelle riviste specializzate nel settore della disabilità e dell’handicap. Come molti altri brani che compaiono in questa rivista è introdotto da due righe di presentazione che noi riportiamo per rispettare una scelta editoriale dall’intento (presumibilmente) pedagogico.

Malattia di Willebrand-Jurghens. Bianca racconta come ha scoperto di esserne affetta e come, con coraggio ed umorismo, convive con questo signore.

Ero convinta che fosse una cosa normale, per una donna, avere un ciclo mestruale di otto giorni con perdite ematiche abbondanti, sempre sul filo dell’emorragia.

Tutt’al più pensavo di avere un tipo di sangue fluido: mai prendere un’aspirina durante quei giorni altrimenti le perdite si sarebbero protratte nel tempo.

Quello che veramente mi disturbava era la continua astenia e i dolori articolari, curati per anni come semplici reumatismi. Mi sentivo così stanca da dormire per intere giornate.

Una banale appendicectomia mi ha fatto cambiare idea, grazie ad un chirurgo impaurito che mi sollecitò ad ulteriori esami clinici.

E con quell’episodio iniziò la mia gita attraverso gli ospedali della zona, tra lunghe ore d’attesa e prelievi sanguigni che non finivano mai.

Le provette aumentavano in maniera esponenziale alle astruse diagnosi che ogni nuovo medico incontrato voleva trovare.

Ne ho sentite di belle, nomi assurdi e difficilmente pronunciabili, patologie da pubblicazioni scientifiche.

Ma nessuna cura e soprattutto nessuno che si occupasse di come mi sentivo.

Dopo qualche anno decisi di affidarmi ad un ematologo che almeno ci provava a curarmi, per farmi stare meglio.

Tra mille incertezze ipotizzò un Lac (Lupos anticoagulante) aggiungendovi l’assoluto divieto di fare figli, ma anche quello di usare anticoncezionali sicuri perché la spirale avrebbe generato piccole emorragie e la pillola interveniva nei fattori di coagulazione.

Poi, l’imprevisto: una mattina il test di gravidanza risultò positivo e nacque il panico in me e nei miei confusi medici che preferirono consultare un ematologo del Centro emotrasfusionale dell’ospedale L. Sacco di Milano ed affidarmi alle sue cure.

E finalmente venimmo a capo della cosa: malattia di Von Willebrand-Jurghens.

Un nome altisonante, d’altri tempi, che definisce una cattiva aggregazione piastrinica, congenita ed ereditaria.

Eppure nessuno nella mia famiglia d’origine ne era affetto e nessuno aveva più ricordato l’episodio di una bambina di sei anni che aveva avuto paura di morire dissanguata per una semplice estrazione dentaria.

La spiegazione data fu “mutazione genetica”, ossia io sono il capostipite dell’ereditarietà.

I dizionari medici recitano parole grosse e definizioni di difficile comprensione, cosa voleva dire in realtà? Cosa avrei dovuto fare, quali cure, cosa sarebbe successo al mio bambino?

Mi tranquillizzarono subito, avrei tranquillamente portato a termine la gravidanza e avrei potuto avere altri bambini se lo avessi desiderato, non ci sarebbero stati grandi problemi, se la diagnosi era esatta.

C’era infatti un piccolo particolare, fino al parto non era possibile avere la certezza che io fossi affetta da quella malattia, perché la gestazione comprometteva i risultati degli esami.

Ma il mio ematologo era convinto e con la sua voce profonda e rassicurante mi fece trascorrere nove splendidi mesi, spiegandomi ogni cosa e rispondendo alle mie mille e ripetitive domande.

In pratica, si tratta di una specie di emofilia a metà, che va continuamente monitorata e contro cui usare alcune piccole precauzioni: i coltelli e tutto ciò che può tagliare vanno posizionati in modo tale da non poter creare incidenti; niente aspirina o antinfiammatori e in caso di influenza, vietato l’uso di un antibiotico; niente estrazioni dentarie, tutte le cure ortodontiche vanno sottoposte a parere ematologico; taglio cesareo anziché parto naturale (il parto naturale provocherebbe, quantomeno, delle piccole lacerazioni con conseguenti emorragie difficilmente ricucibili, mentre nel parto cesareo tutti i tagli sono chirurgici e quindi suturati); nessun antidolorifico o iniezioni inframuscolari; limitate al massimo gli urti e ciò che piò provocare un livido che faticherebbe a riassorbirsi.

Terapia: vitamina C contro i dolori – che non sono reumatici, bensì microemorragie all’interno delle articolazioni – e ferro, sempre carente per le abbondanti perdite mestruali.

Ci sarebbe da fare una precisazione: nel mio caso la malattia è associata ad una immunodeficienza di tipo secondario, che può essere alleviata con un farmaco chiamato “TP1” (Timostimolina). Ogni iniezione ha un costo di 124 mila lire e non è mutuabile, perché l’efficacia del farmaco non è scientificamente dimostrata. Eppure il suo effetto positivo è confermato dal sollievo provato dai pazienti che lo usano. E’ solo il suo costo ad essere proibitivo e la sua non mutuabilità, poco motivata.

Non è grave soprattutto se mi guardo intorno. Nel reparto che spesso frequento, quando va bene si è in attesa di trapianto del midollo osseo.

Il tempo passa e ci si abitua , anche se a volte è faticoso continuare a sentirsi male e non poter prendere nulla, neanche per un banale mal di testa. Ci si sente esausti e si scopre di avere un’energia interiore fuori dal comune che fa andare avanti e fare tutto.

Adesso guardo crescere i miei due splendidi bambini così pieni di vita da dormire davvero molto poco e cerco di reprimere ogni ansia. Voglio che vivano normalmente e del Willebrand ce ne occuperemo solo quando e se sarà necessario.

Ci si stanca ad essere ammalati e per questo, durante uno dei miei ultimo controlli medici, ho dichiarato che non mi accontentavo più di fare la paziente, volevo diventare donatrice. Sono scoppiati tutti a ridere.

E un pizzico di umorismo non guasta, in un reparto dove ci sono lunghe file d’attesa per una fievole speranza di vita.

Andrea, mio fratello

di Renata Rizzi

(tratto da “L’agenda”, febbraio 1999, n.97, pag.18-19)

E’ difficile che le sorelle scelgano di scrivere su una rivista, eppure il loro punto di vista è sicuramente diverso da quello di un genitore o di un compagno/a o, ancora, di un amico. Dall’analisi delle testate nel periodo 1995-1999 risulta un solo documento che racconta una “Esperienza di sorella”. In ciò l’interesse per questo brano.

Il nome dell’autrice è stato inventato, su richiesta dell’autrice reale a tutela della privacy del fratello.

“Tema in classe: Esiste certamente una persona (genitore, amico, educatore…) alla quale ti senti di dovere molto sul piano della tua crescita morale e umana. Parla di lei e di te.”

Una persona a cui devo sicuramente molto sul piano della mia crescita morale e umana è mio fratello Andrea. Questi è una persona che molti definirebbero “diversa”, ma io preferisco dire “speciale”. Purtroppo alla sua nascita un cromosoma non si è riprodotto correttamente ma “si è dimenticato” una piccola parte; tutto questo è definito dai medici con un nome troppo difficile da ricordare, è come un morbo molto raro che porta alla persona diversi problemi fisici e di apprendimento. Non vorrei che si pensasse che Andrea sia stupido o cose del genere: ha solo alcune difficoltà nell’assimilare qualche cosa e alcune fissazioni che a volte lo fanno sembrare quasi un bambino; per il resto capisce tutto, è autonomo e pretende le libertà che hanno tutte le altre persone. Forse sarebbe stato meglio per lui se la sua malattia fosse stata più greve: avrebbe sofferto di meno perché non sarebbe stato consapevole delle sue limitazioni, che invece comprende benissimo. Ciò gli procura una grande tristezza e un conseguente nervosismo che a volte lo rende intrattabile.

Dal punto di vista fisico, alla nascita aveva diversi problemi motori che, grazie alle terapie che i nostri genitori gli hanno fatto fare e alle operazioni a cui è stato sottoposto, si sono attenuati notevolmente, fino a riscontrarsi solo in un equilibrio non pienamente stabile. In un certo senso, quindi, il fattore che mi ha fatto maturare è stato la malattia di Andrea e non propriamente lui, in quanto mi ha fatto crescere inconsapevolmente e indirettamente.

La presenza della malattia di Andrea, con la quale ho dovuto convivere da sempre perché lui è il fratello maggiore, ha causato nella mia famiglia delle situazioni che sicuramente non si verificano in una famiglia “normale”. Così, vedendo i miei genitori sempre molto occupati a crescere nel migliore dei modi mio fratello, specie quando era piccolo perché nell’infanzia era più facile fargli ottenere dei progressi, ho sempre cercato di essere più indipendente possibile, di non dover gravare troppo su di loro. Mia madre ricorda che una mia frase ricorrente fin da piccola, era “sono capace”. Ciò conferma il fatto che cercassi sempre di imparare da sola le cose osservando come si facevano e di essere sveglia per non dover sempre chiedere aiuto a mio padre o a mia madre già troppo impegnati con mio fratello e i suoi problemi. Ci tengo però a sottolineare che, naturalmente, i miei genitori sono sempre stati affettuosissimi e premurosi anche nei miei confronti. Per questo li stimo tantissimo; sono due persone molto forti che adempiono il loro compito di genitori col massimo impegno e soprattutto, sono riusciti con il loro affetto enorme, anche verso di me, a non suscitare mai la mia gelosia nei confronti delle cure che davano e di cui necessitava Andrea, perché ciò non ha mai comportato una mancanza d’affetto nei miei confronti.

Dal punto di vista morale la presenza di Andrea mi ha aiutato ad aprirmi a tutto quello che non è uguale a me e a non averne paura. In tutta la mia vita non ho mai deriso qualcuno per il suo aspetto, o il suo comportamento, o per il suo modo di essere, perché fin da piccola ho visto quanto Andrea soffrisse, e purtroppo soffre ancora – le persone stupide e ignoranti continuano ad esistere – quando qualcuno lo prendeva in giro.

Da questo punto di vista Andrea ha contribuito anche a rafforzare il mio carattere perché, ogni qual volta si trovava a disagio a causa delle derisioni di qualcuno, non esitavo a difenderlo, anche contro chi era più grosso di me. Inoltre, grazie a lui, ho imparato a non dare per scontato tutto quello che ho, ma ad essere felice anche delle piccole cose. Vedo sempre tante, troppe persone che, nonostante possiedano salute, affetto delle persone vicine e una situazione economica dignitosa, cercano qualunque pretesto per sentirsi infelici, non rendendosi conto che l’infelicità loro è un bestemmia nei confronti di quella, giustificata di chi è stato privato di qualcosa di essenziale dalla natura. Naturalmente, anch’io sono un essere umano e a volte cado nell’errore di non apprezzare (sempre) quello che ho e di lamentarmi di cose futili, ma quando penso a tutto quello che non ha Andrea mi sento terribilmente mortificata e cattiva perché proprio io, che vedo certe situazioni così da vicino, non mi devo permettere di non essere felice per tutto quello che Dio mi ha dato.

Voglio un mondo di bene a Andrea e mi domando perché una cosa del genere dovesse capitare proprio a lui, non per me ma perché vedo quanto ne soffrono i miei genitori e lui stesso. Fa male vedere persone a cui vuoi bene soffrire e vorresti che tutta la sofferenza che è in loro si riversasse su di te pur di vederle felici.

Per quanto riguarda la mia sensibilità nel rapporto con gli altri si è molto accentuata a causa della mia convivenza con mio fratello. A volte soffro tanto perché, non rendendomene conto, pretendo che gli altri capiscano la mi situazione, i miei sentimenti quando, finché non si vivono esperienze simili non si può capire il disagio e la rabbia di fronte all’impotenza di mettere fine a tutta la situazione. Penso che in circostanze come la mia non ci sia una totale comprensione degli altri nei tuoi confronti perché ognuno vive le stesse situazioni in modo differente, e alla fine si è soli e bisogna prendere forza da proprio interno.

Io sono sulla buona strada: sto raggiungendo un equilibrio interno che mi consente di trarre tutta la forza di cui ho bisogno per affrontare la vita con una persona che dovrò aiutare sempre perché più vulnerabile di altri, compito che ora tocca per lo più ai miei genitori ma che più avanti spetterà a me…

5.6 Ruotalibera (rivista pubblicata dall’Associazione Paraplegici Lombarda di Milano)

Una esperienza, una vita

di Amalia Rossignoli

(tratto da “Ruotalibera”, luglio-settembre 1999, n.3, pag.14-18)

Concludiamo questa “raccolta ragionata” di brani con un articolo sulla sessualità. Si tratta di un brano estremamente interessante e ricco di spunti critici. Il rapporto con i medici, un percorso personale, la finzione come reazione al disagio, “lo stupro dell’anima”… alcuni dei temi trattati in un testo che, come pochi, riesce ad essere sobrio e schietto allo stesso tempo.

Si tratta di un documento abbastanza lungo, purtroppo, per ragioni di spazio, quella che proponiamo è una versione ridotta di esso.

Una notte. Andavo a ballare. Ero bella, giovane, piena di progetti per il mio futuro, con tanta vitalità nel corpo. Ogni cosa mi sembrava possibile, tutto poteva essere mio, se l’avessi voluto. Non conoscevo il dolore fisico, la rinuncia, la paura, l’impotenza. Uno schianto terribile cambiava “tutto”.

Ospedali, medici, catastrofiche diagnosi.

Paura, tanta paura, che univa alla mia non conoscenza l’impreparazione di chi si sarebbe dovuto occupare di me nel modo più corretto e non lo faceva. Non potevo credere che la mia vita sarebbe così cambiata tanto da essere definita “handicappata”.

Chi ero diventata, cosa ero diventata? Perché gli uomini passavano il loro sguardo sopra di me quasi da farmi sentire invisibile e perché quando incrociavo i loro sguardi era così diverso?

Io mi sentivo ancora “io”, donna, perché gli altri non mi vedevano tale? Ancora tanti perché che mi affollavano la mente oltre all’evidenza di uno stato fisico drammatico.

Perché subivo costantemente affronti al mio pudore con oscene visite collettive, dove il gran Primario, accompagnato da un cospicuo numero di giovani praticanti, spesso della mia stessa età, per vedere se muovevo le dita dei piedi, scopriva tutto il mio corpo forzatamente nudo, con un catetere a permanenza, senza possibilità di chiudere le gambe?

Avrebbe potuto coprire con un lenzuolo tutto il resto! Nella mia mente sempre più perdevo il concetto di me: chi ero e chi ero diventata.

Qualche giorno prima un costume da bagno un po’ succinto scatenava interessi o critiche, perché ora le mie gambe aperte non suscitavano almeno la pietà di chi avrebbe potuto socchiuderle?

Cliniche di riabilitazione, informazioni strappate a forza, sentendomi rispondere, a domande del tutto naturali “Ma signora, a questo lei pensa dopo tutto quello che ha avuto? Le domande erano semplicissime: “Mi dica Dottore, cosa posso fare con il mio uomo durante un rapporto sessuale, io non so cosa è successo al mio corpo, cosa posso fare di me stessa e con me stessa?”

Chi ero diventata, qualcuno mi avrebbe ancora desiderato? Avrei potuto essere oggetto di desiderio e soprattutto quale grande sentimento che sentivo dentro di me avrei potuto esprimere?

Allora è cominciata, per poi proseguire nel tempo, la mia affannosa ricerca di una nuova me stessa, che forzatamente si collegava ad un passato, ma che doveva e poteva trovare un nuovo modo di manifestarsi.

Ancora “donna”, nonostante quella società mi avesse già definito un “nulla” con le gambe aperte che nessuno chiudeva.

Fortunatamente una buona clinica tedesca mi ha, non solo riabilitato fisicamente, ma spiegato tutto ciò che era successo al mio corpo. Il grande Prof. Paeslack primario di quella clinica per molti anni, vero paraplegista, oggi non più tra noi perché prematuramente deceduto, mio grande amico per sempre, nel modo più esaustivo, mi spiegò tutta la mia mutazione, ma soprattutto l’enorme possibilità di vita che “dovevo vivere”. Dovevo perché era possibile, dovevo perché mi spettava, dovevo perché sarebbe stato ugualmente bello! […]

Ricominciavo a vivere la mia vita amorosa, emotiva, sessuale. Mi guardavo attorno. Le mie amiche di stanza, una in particolare (che non dimenticherò mai) in quei primi anni.

La sentivo rientrare quasi tutte le sere ad ore tarde. La sentivo piangere. Con il mio povero tedesco ma con tutto il cuore, le andavo vicino e le parlavo. Era paraplegica essendo caduta da un albero di ciliegio mentre le stava raccogliendo per gioco. Era ancora bellissima: occhi azzurri e grandi, capelli biondi, il seno perfetto, un corpo armonico. In clinica era famosa perché aveva inventato un gioco: “Per quanti minuti era possibile baciare sulla bocca un uomo?” Lei era la più brava anche perché la più desiderata dagli altri paraplegici. Guardavo nei suoi occhi la sfida, costante. Mi raccontava tante piccole bugie; io sapevo che in molti letti ed in tante occasioni , quando non hai sensibilità alle gambe e sei tra le braccia di un uomo, non osi parlare dei tuoi problemi, perché forse lui non ti vorrebbe “così diversa”.

Oggi si parla un poco di più di stupro. Chi con ipocrisia, chi con onestà. Davvero si è pensato ad un certo tipo di stupro, sottile, sconosciuto qual è la violenza subita da chi non riesce a riconoscere se stessa e per tale ragione non si nega pur di sentirsi donna, persona, disabile?

La solitudine che inevitabilmente le rimarrà, è lo stupro dell’anima, che non potrà confessare a nessuno perché partecipe, Partecipe di qualcosa che per molti è naturale, la vita stessa lo dichiara, ma per chi è diverso diventa un compromesso tra “l’avere e il dare”.

Così, come le regole impongono, come fa una donna disabile, piena di ricchezze nel cuore, a competere con gli schemi prefissati di ciò che è ritenuto desiderabile?

La mia amica, tra una lacrima ed una bugia, mi raccontava di essere stata molto amata e che tutti gli uomini non volevano che “lei”.

Aveva, per l’ennesima volta, donato se stessa, per confermare il suo essere ancora donna.

Stavo imparando, ascoltando, a riorganizzare la mia vita. Avevo ventisette anni – mi ero sposata a venti; un marito ed una figlia di tre anni.

Allora, come adesso, poco si sa in rapporto ai problemi legati alla sfera sessuale della donna, considerato che il rapporto tra donne ed uomini paraplegici è di uno a quattro.

Si riteneva e si ritiene che la donna paraplegica sia meno colpita sessualmente e che il suo disturbo sia relativamente scarso; quasi da non far discutere in campo medico, sociologico e psicologico.

C’è una stupenda relazione, esaustiva in tutti i particolari, sulla sessualità e procreazione della donna mielolesa presantata da Prof. Paeslack a Praga nel 1997.

Il fatto che le mestruazioni ricompaiono, che la possibilità di procreazione rimanga tale, che il ruolo da sempre definitole come un “gregario”, non ha permesso il riconoscimento del principio attivo in ogni modo legato alla sfera del desiderio, dei sentimenti.

Ho imparato principalmente ad avere una comprensione femminile di me; non solo riconoscendomi donna nella mente, madre, moglie; ma anche ad avere un’attenzione al mio esterno.

Il trucco, l’abbigliamento, il modo di pormi, al stessa sedia a ruote, dovevano essere il più femminili possibile.

In un certo modo, anch’io, come la mia amica tedesca, in ogni uomo che conquistavo o che aveva per me tenerezze, attenzioni, ritrovavo la conferma che ero ancora una “donna” desiderabile.

Incoraggiata da tutte le informazioni ricevute nella clinica di riabilitazione, ricomponevo il mio “io” e ritrovavo il coraggio di ricominciare.

Un lento, faticoso cammino, fatto di giorni, sempre diversi e nuovi.

Ultimi articoli

vacanze accessibili

Village4all, Guide turistiche per un’ospitalità accessibile

È disponibile la nuova “Guida all’Ospitalità Accessibile Italia-Croazia 2025”, prodotta da Village for all (V4A®), che include quasi 100 strutture affiliate e copre 44 destinazioni turistiche accessibili. La guida, che ha il patrocinio di UILDM, è

MP (2)

Autonomia personale: un diritto, un percorso, una possibilità reale

Per chi vive con una disabilità, l’autonomia personale non è un concetto astratto né un ideale lontano. È qualcosa di concreto, che può cambiare in modo determinante la qualità della propria vita. Ma soprattutto, è

Live for all quad

Accessibilità degli eventi dal vivo, Una legge per Live For All

Dopo decine di segnalazioni e articoli che raccontano le esperienze limitanti e spesso discriminatorie vissute da spettatori e professionisti dello spettacolo con disabilità, giovedì 3 luglio in Senato, si è svolta la conferenza stampa “Una

Rimani sempre aggiornato

Iscriviti alla Newsletter