Un’esperienza di auto aiuto

La disabilità è delle persone disabili! La loro vita anche!

Le persone disabili devono imparare da sé a gestire la propria disabilità e a vivere la propria vita.

Le energie e le forze per farlo sono all’interno delle stesse persone disabili: vanno solo cercate. L’aiuto di persone con esperienze analoghe serve solo per imparare a cercare queste energie. Nessuno deve sostituirsi alla persona disabile nell’importante compito di definire la propria personalità e di trovare le proprie soluzioni e i propri percorsi.

Ecco riassunto in poche righe lo spirito che ha animato il primo incontro sull’auto aiuto del Gruppo Donne UILDM.

Ma cosa sono i gruppi auto aiuto (self-help) e la consulenza alla pari (peer counseling)? E a cosa servono?

Possiamo definire questi gruppi come “reti sociali `artificiali’, reti cioè che si creano deliberatamente per produrre aiuto/sostegno sociale. I punti di maglia di queste reti sono costituiti da soggetti portatori di un identico problema o condizione.” (Silverman Phyllis R., I gruppi di mutuo aiuto. Come l’operatore sociale li può organizzare e sostenere, Trento, Erickson, ©1989, pag.13).

La consulenza alla pari è contemporaneamente sia una filosofia (un approccio alla persona), sia un complesso di tecniche utilizzate dai gruppi di auto aiuto.

In sostanza, attraverso l’uso delle capacità di risoluzione dei problemi e dell’ascolto attivo (ascolto in profondità), i consulenti possono sostenere le persone che condividono una condizione analoga alla propria, i “pari” (“peer”), in modo molto più efficace ed incisivo di quanto potrebbe fare una persona distante da quella condizione.

Affermare che “anche in presenza di una disabilità ci si può comunque autodeterminare e realizzare” risulta molto più credibile e convincente quando chi afferma ciò è una persona con disabilità che è risuscita a scegliere da sé la propria vita, ed è felice di averlo fatto.

Si tratta, in pratica, di una filosofia che parte dal presupposto che tutte le persone sono potenzialmente in grado di individuare da sole le soluzioni alle proprie difficoltà e i propri modi di raggiungere le mete che si sono scelte. Ciò a condizione che trovino un ambiente adatto ad esprimere queste capacità: un ambiente confidenziale, riservato, paritetico, creativo e propositivo.

Eravamo 13 donne (con un’età media di 31 anni) in quella saletta, tutte disposte in cerchio: è importante guardarsi in faccia quando si parla, è importante soffermarsi sugli occhi.

Le due consulenti (helper) hanno spigato alcuni concetti di base utili alla conduzione dell’incontro: l’ascolto attivo, quello attuato prestando la massima attenzione alle parole e ai gesti dell’altro; l’empatia, ossia la capacità di immedesimarsi e di mettersi nei panni dell’altro per riuscire a comprenderlo in profondità; la divisione dei tempi intesa come modalità di lavoro in grado di garantire l’uguaglianza: per dieci minuti parli te e io ti ascolto, per dieci minuti parlo io e sarai te ad ascoltarmi; l’avalutatività: non ti giudico, rispetto le tue idee anche quando non le condivido; la riservatezza: ciò che viene detto nel gruppo è patrimonio del gruppo; la fiducia: mi apro a te perché penso che tu, condividendo la mia stessa condizione (nel caso specifico: la disabilità), possa capirmi meglio degli altri; la vicinanza: solo attraverso essa si può creare un clima di confidenzialità; e, infine, la consapevolezza di sé e la crescita personale: come mete ambite per migliorare la persona e la società nel suo complesso.

I lavori sono iniziati con un gioco: in una prima fase ci siamo divisi a coppie e, rispettando la divisione dei tempi, l’una si è presentata all’altra. In un secondo momento le informazioni raccolte venivano restituite al gruppo: per dieci minuti abbiamo smesso di essere noi stesse e abbiamo fatto finta di essere la persona che avevamo ascoltato pochi istanti prima. Un modo costruttivo per imparare a mettersi nei panni dell’altro. Infine, in una terza fase, abbiamo riflettuto sulle cose che erano venute fuori. Frequentemente è stata espressa la voglia di autonomia e indipendenza, anche nei confronti della propria famiglia di origine. Comune a tutte è risultata la sensazione di vicinanza e di sincerità, nonché una maggiore sicurezza nel parlare di sé in pubblico, anche davanti a persone appena conosciute.

Dopo una breve pausa, i lavori sono ripresi con un nuovo gioco realizzato con la tecnica del “brainstorming” (ovvero la tempesta di idee).

Al centro di un foglio ognuna ha scritto l’espressione “io donna”, quindi tutt’intorno ha scritto individualmente tutti i termini che riusciva ad associare a questa espressione. Termini non necessariamente ragionati, spesso termini emotivi, stati d’animo.

Questi, in ordine sparso, i termini associati (i termini che sono stati citati più volte sono indicati una volta sola in questo elenco):

  • femminile materna indipendente
  • libera bambini femminilità
  • figli forte uscire
  • famiglia insicura fragile
  • sofferenza madre impegno
  • responsabilità autonomia solidarietà
  • maternità affettuosa pensierosa
  • simpatica carina felicità
  • innamorata amore sesso
  • uomini essere amata fratello
  • sorella lavoro realizzazione professionale
  • gioielli abbigliamento eleganza
  • genitori casa amica
  • curata intelligente elegante
  • possessiva testarda opposta a maschio
  • agitata bella spaventata
  • insoddisfatta interessante arrabbiata
  • rompiscatole amicizia affetti
  • contatti igiene (intima) mamma
  • pulizie ordine trucco
  • disabile wc per pipì abiti (moda)
  • linea sensibile pratica
  • tenace emotiva responsabile
  • fisicamente discriminata competitiva rispetto
  • poco solidale con le altre donne intelligenza
  • sensibilità egoismo volontà
  • invidia intraprendenza capacità di ascolto
  • bellezza disponibilità dolcezza
  • incostante sessualità femminismo
  • coraggio vita armonia
  • amante gentilezza orgogliosa
  • angosciata solare solitaria
  • dipendente contraddittoria

Tra questi termini quelli più citati sono stati e seguenti: amore, madre, figli, indipendenza, autonomia, intelligenza, amicizia e disabile. Rispetto a questi il gruppo ha riflettuto collettivamente.

Riguardo all’amore le posizioni erano concordi nel ritenerlo uno degli elementi più importanti della vita. Per alcune è una realtà concreta e gratificante; per altre un vissuto sperimentato ma non attuale; per altre ancora una fantasia pensata e desiderata. Qualcuno ha notato che tra i termini più frequenti manca quello della sessualità: probabilmente molte lo consideravano implicito a quello di amore. In realtà, pur non comparendo in questa ristretta rosa di termini, il tema della sessualità è risultato molto sentito. Un frutto goloso che va assaporato. “Difficile. Non impossibile. Tecnicamente complicato.” Difficile cimentarsi con in corpo che cambia. Difficile relazionarsi con una persona alta due metri più di te. Difficile chiedere aiuto. Difficile relazionarsi con altre persone disabili. Non è solo un bisogno fisico, è un bisogno di attenzioni, di “una telefonata”, di condividere il quotidiano….

Rispetto alla parola madre tutte anno rilevato una presenza forte di questa figura nelle proprie vite. Un presenza forte con significati spesso contrastanti: legame che non si spezza, figura di riferimento, ruolo di cura e protezione, ma anche ostacolo alla libertà, all’autonomia (sia pure in buona fede).

Anche il termine figli ha suscitato grande interesse e attenzione. Tema delicato in presenza di una patologia trasmessa geneticamente. E anche superando questo aspetto, rimangono sempre da svolgere mansioni di cura: “i figli non sono quelli che si partoriscono, ma quelli che si amano e si accudiscono”. Forse si potrebbe pensare all’adozione come via praticabile…

Indipendenza e autonomia, ma anche dipendenza come termine correlato. Non si può non cimentarsi con questo. Termini che partono dalla testa, ma che cercano anche vie pratiche, concrete sino a diventare impegno politico: non è un caso che la consulenza alla pari sia il metodo pedagogico dei movimenti per la Vita Indipendente. Non è un caso che questi movimenti promuovano il protagonismo della persona disabile. Ma questa indipendenza, ribadiamo, è anche dalla famiglia: non si può più proporre quest’ultima come soluzione preferita per affrontare la disabilità. La famiglia protegge: protezione e libertà spesso fanno a pugni. E’ nell’ordine naturale delle cose che, a un certo punto della loro vita, le persone divenute adulte desiderino lasciare il nido. Perché le persone con disabilità dovrebbero rappresentare un’eccezione a questa regola?

Intelligenza: nessuno dubita di averla. A volte è faticoso doverla usare sempre per arrivare dove chi corrisponde ai “modelli convenzionali” arriva senza sforzo, “senza esporsi”, senza batter ciglio. E’ faticoso sentirsi svantaggiati.

Amicizia: importante, ma non siamo più disposte ad adattarci. Crescendo impari ad essere selettiva. Quando sei giovane e sei convinta che la disabilità inibisca i rapporti di amicizia accetti tutto. Sei l’amica migliore, quella che trova sempre la parola giusta, anche quando gli altri non si sforzano di trovarle per te quelle parole. Sto imparando a diventare una cattiva amica. “Non voglio più essere il muro del pianto di nessuno”. Sto diventando selettiva: definire la propria personalità vuol dire anche questo.

Disabile? Per alcune: “Perché dovrei accettarlo? Non ci riesco! Non mi rassegno. Perché dovrei?” Per altre: “Fa parte di me, è la mia realtà, ma non è la cosa più rilevante che c’è in me. Prima ci sono io!”

L’incontro si è concluso con un bilancio conclusivo sull’esperienza: ognuno ha indicato le “cose da portare via” e le “cose da lasciare”.

Tra le “cose da portare via”:

L’arricchimento del confronto. Dei bei momenti e la voglia di migliorare. Molta forza e l’arricchimento delle esperienze altrui. La scoperta di belle amicizie che, pur nascendo una volta all’anno, si nutrono di un affetto che va al di là del tempo e degli uomini. Una grande energia e la frase: “volere e potere”. Ciò che è stato raccontato. Una piacevole giornata passata insieme tra donne. Le esperienze altrui per farle fruttare, ma anche il mio dolore, perché anche quello è un’esperienza. Nuove amicizie e l’occasione di parlare con altre persone disabili. Il piacere di trovare persone che vivono la mia stessa realtà. Emozione, entusiasmo. Una bellissima esperienza, un’energia positiva. Un clima di confidenzilità e fiducia. La possibilità di fare questi incontri.

Tra le “cose da lasciare”:

Il mio cuore. La speranza che una mia frase sia servita a qualcuno. Alcuni brutti pensieri. Il fatto di vivere la disabilità in modo comune. Vorrei lasciare le mie paure. Lo scetticismo. Un po’ del mio dolore. La convinzione che la soluzione di tanti problemi è dentro di noi. La voglia di ritornare. La voglia di continuare questo discorso. Il senso di solitudine. L’ansia di condurre la giornata, la solitudine, ma anche la voglia di rivederci. L’ansia. La voglia di imparare ad ascoltare in profondità anche nella vita di tutti i giorni.

Come avete potuto constatare sono solo appunti al margine di una giornata passata insieme. Ci siamo dette tante cose: molte di più di quelle che potete trovare scritte qui. Abbiamo trascritto solo i pensieri più generali: quelli non riconducibili a persone specifiche. Abbiamo volutamente tralasciato le storie personali: per non spezzare il vincolo di riservatezza che ha invogliato molte ad aprirsi e confidarsi.

Si è creato un clima di confidenzialità molto più profondo che nei precedenti incontri. Ci muoviamo acquisendo gradi sempre crescenti di consapevolezza.

Abbiamo ritenuto importante lasciare comunque una traccia di questa giornata.

Ognuna di noi conserva nella propria memoria il senso di questa giornata. Questo senso diventa molto più forte nel momento in cui lo affidiamo alla memoria collettiva.

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