Con gli occhi rivolti al futuro
di Francesca Arcadu
E’ che quando mi guardo allo specchio e vedo che ho i capelli in disordine mi viene spontaneo prendere un elastico, alzare le braccia per farmi una bella coda prima di uscire… è che quando rispondo al telefono in macchina devo sempre tagliar corto se mi son dimenticata di portarmi dietro l’auricolare, così le telefonate diventano corte ed io ho una fastidiosa voce da sforzo per il braccio che cola giù… è che quando devo prendere un libro dallo scaffale mi sembra ogni volta di arrivarci, ma manca sempre quel tantino e il braccio non ne vuole sapere di andare oltre… è che quando sono a letto, durante la notte, mi viene spontaneo girarmi di qua e di là, accendere la luce per leggermi un buon libro, in silenzio, da sola…. come ho fatto per anni…
E’ che la mia malattia non è più la stessa, come non lo sono più io, d’altronde, ma il mio cervello, lui sì, lui ha immagazzinato le azioni negli anni e le ha impresse come stampe, ricorda tutto di come si fa per prendere le cose, tenerle strette, alzarsi dal letto: lo scatto dei reni e poi dritti a guardare il mondo dall’alto in basso. E che si fa se poi quelle informazioni inutili non ne vogliono sapere di adattarsi a un corpo che diventa man mano più stanco, molle e incapace di fare le mille cose che il cervello vorrebbe?
Una domanda così lascerebbe spiazzato chiunque, almeno per cinque minuti buoni, il tempo di riflettere sul da farsi e trovare soluzioni alternative. E’ su quei cinque minuti di riflessione e adattamento che si è cercato di ragionare insieme in occasione del seminario del Gruppo Donne, per capire se esistano delle risposte, delle strategie vincenti per far si che corpo e cervello vadano armonicamente insieme nel percorso progressivo delle malattie neuromuscolari.
Le piccole azioni quotidiane che non mi posso più concedere scandiscono il percorso della patologia e forse sono proprio quelle azioni apparentemente marginali come farsi una coda, grattarsi la nuca, o sollevare la tapparella per far entrare un po’ di luce che mi mancano di più, perché la consapevolezza di non camminare è lì da sempre, ci cresci insieme e te ne fai una ragione, almeno per alcuni tipi di distrofie o amiotrofie e a seconda del percorso personale.
Invece davanti ai gesti quotidiani che cambiano, alle autonomie che scompaiono che si fa?
Ogni volta, davanti a questi bivi, immagino la scena di Matrix in cui il protagonista si trova davanti due pillole di colore diverso, ingoiando le quali si aprono scenari differenti e conseguenze opposte. Ecco, si può scegliere un’ipotetica pillola nera, carica di inquietudine, in cui il cervello si concentra soltanto su ciò che un tempo era possibile fare, su come fosse bello essere indipendenti e quanto sia brutto, ora, chiedere continuamente aiuto, ma in questo caso il futuro che ne consegue è fosco, fatto di continuo dolore, frustrazione e senso di perdita esasperato. Oppure si può optare per la pillola rossa, quella di chi si concede i famosi cinque minuti per capire come fare a godersi il silenzio notturno anche senza girarsi qua e là nel letto, di chi aguzza l’ingegno per scovare ausili e soluzioni che amplifichino al massimo le azioni e il gusto nel compierle. E in questo caso il momento della riflessione contempla anche la nostalgia per quelle informazioni mentali ormai inutili, ma sa farne tesoro come ricordi per poi inventarsi nuovi linguaggi, vecchie azioni compiute in maniera diversa.
Io credo che per scegliere il percorso della consapevolezza e della elaborazione sia importante confrontarsi con gli altri, raccontarsi i propri percorsi comuni e condividere anche i cattivi pensieri, per esorcizzarli e trasformarli in carburante per ripartire, sapendo imparare gli uni dagli altri. Peccato che abbiamo avuto poco tempo a causa di problemi organizzativi, il giorno del seminario, per dedicarci al lavoro di gruppo e discutere insieme non solo di come abbiamo vissuto in passato i rispettivi percorsi di adattamento, ma anche per capire, con l’aiuto della Dottoressa Todaro, come gestire al meglio episodi concreti di vita quotidiana, discutendone tra noi per individuare obiettivi e soluzioni possibili. Chissà, magari potremo proseguire il discorso il prossimo anno.
Per concludere, mi capita talvolta di assaggiare entrambe le pillole, ma per fortuna non permetto che l’effetto di quella nera duri mai troppo a lungo. E’ che ora per truccarmi faccio molta fatica e questo mi pesa parecchio; mi fermo cinque minuti a pensare e poi passo in profumeria, ecco: ho trovato una serie di pennelli per il trucco particolarmente lunghi, sembrano fatti apposta per le mie braccia che non ne vogliono sapere di sollevarsi. Li compro, torno a casa e provo a mettermi l’ombretto… davanti allo specchio non penso più a quello che non posso fare, ma alla soddisfazione di aver trovato una soluzione.
Contro le avversità, oltre le avversità
di Gaia Valmarin
Nel richiedere agli “amici” del Gruppo donne le riflessioni sul tema delle strategie di adattamento ai cambiamenti indotti da una patologia evolutiva, abbiamo fornito una traccia formulata in termini di questionario. Gaia ha voluto fornirci un contributo di pensiero costruito a partire dalle nostre domande: abbiamo scelto di pubblicarlo nella stessa forma in cui ci è pervenuto.
La distrofia vi cambia? Ruba le vostre forze e rosicchia la vostra autonomia o quella di persone a voi vicine?
Ogni avvenimento cambia la persona, anche il semplice trascorrere degli anni, o il cambiare quartiere, o abitazione. Non sempre è bello trovarsi cambiati; soprattutto il passaggio può essere doloroso, come durante il parto, quando il bambino soffre la sua espulsione. Figuriamoci quando il cambiamento si associa a qualcosa che si perde, a dei movimenti che diventano sempre più pesanti, a un respiro che diventa sempre più difficoltoso.
Leggendo la domanda trovo graziosa l’idea di un topolino che rosicchia e di me come un gustoso pezzo di caciotta o di groviera con tanti buchi. Sì, ogni giorno perdo qualcosa, ma la disperazione maggiore è quando mi accorgo che questo “topastro” si è mangiato un po’ della mia speranza e della mia voglia di sperimentare.
Penso che sia vero che l’handicap annienti il giusto equilibrio e i sani rapporti familiari, soprattutto nell’età evolutiva.
Che sentimenti vi suscitano questi cambiamenti? Come li affrontate?
La disperazione è il primo sentimento che mi verrebbe da enumerare, ma sicuramente dopo viene lo “spirito di sopravvivenza”, che è più forte di tutto e che, senza troppi ragionamenti, mi spinge a voler stare a galla a qualunque costo.
Come reagite? Con chi vi confrontate nei momenti di difficoltà?
Sicuramente gli amici sono una grande ancora di salvezza, ma in generale anche tutte le persone con cui vengo a contatto. Non perché vado a lamentarmi o a piangere da loro: questo non succede mai perché per me la dignità è un grande valore. Però se si ascoltano gli altri, se si impara ad ascoltare e a condividere i problemi e la vita di chi ci circonda, spesso le proprie disgrazie prendono una dimensione diversa e si diventa molto meno “distroficocentrici”. Ho sempre tentato, pur non riuscendoci sempre, di vivere la norma che “il chicco di frumento perde se stesso per dare un buon frutto”.
Quali strategie avete sperimentato per superare i momenti critici?
Dirsi di reagire è un po’ inutile, bisogna concedersi un periodo di dispiacere, ma poi anche questo diventa inutile; quindi mi concentro anche solo con la fantasia su quello che potrei fare per darmi gioia e piacere.
Se le reazioni non sono quelle che vorreste avere, come vi piacerebbe saper reagire alla malattia?
Sarebbe assurdo dire che la malattia non incide sul carattere e sull’umore. Purtroppo non sempre si riesce ad avere l’animo leggero, ma le mie origini del nord-est fanno sì che mi senta molto vicina al motto degli alpini che prevede di andare sempre avanti nel dolore e nella fatica: “contro le avversità, oltre le avversità”.
Come una candela
di Alice Conti
Per espressa richiesta della persona che l’ha inviata, e a tutela del suo anonimato, questa testimonianza è firmata con uno pseudonimo.
La distrofia mi ha cambiata? Domanda retorica, perché la distrofia si è impossessata della mia vita e di quella della mia famiglia e l’ha stravolta; è entrata nella mia vita di bambina e da allora sono iniziati i ricoveri ospedalieri, le visite mediche ed i viaggi della speranza, bastava che un presunto guaritore venisse spacciato come “essere” in grado di compiere miracoli e subito ci si recava, anche se si era ben consapevoli che tutto era ed è inutile, perché i genitori sono disposti a tutto per i propri figli, anche ad accantonare l’uso della ragione.
Questa malattia bastarda è come una candela che ti consuma lentamente, uno sa cosa può fare un giorno, ma non sa se lo stesso movimento può compierlo il giorno successivo, non si possono fare programmi, tutto è relativo ed estremamente precario.
Le cose si complicano quando interviene in dolore fisico, al quale non puoi ovviare, ma puoi solo subire e sperare che si affievolisca, tutto peggiora quando la Fatica ti impedisce di andare avanti, di respirare, di condurre un’esistenza minimamente dignitosa.
Io non sono a favore della teoria che sostiene che la vita va salvaguardata sempre e comunque, perché oltre ad un certo limite la vita non è più vita.
So benissimo che se riuscissi ad accettare questa situazione vivrei meglio, ma non ci riesco. Il primo sentimento che provo è una rabbia profonda, che guida le mie azioni e mi impedisce di raggiungere un po’ di serenità. Quando sono in preda a tali emozioni mi rivolgo alle persone che mi stanno intorno, che “devono” starmi intorno, perché noi siamo spesso costretti a compiere scelte obbligate, anche il fatto di dovere sempre avere bisogno degli altri, anche per le minime cose, ci costringe ad essere sia sempre “in obbligo” verso chi ci aiuta, sia di “pretendere” che gli altri ci pongano sempre al primo posto, quasi immolandosi sull’altare della nostra disabilità.
Non ho trovato strategie vincenti per superare i momenti di sconforto più profondi, anzi più passa il tempo, più mi accorgo di diventare egoista e menefreghista nei confronti dei problemi del prossimo, forse pretendo troppo, ma non sono la persona che vorrei essere.
Ultimamente ho incontrato una persona che si proclamava fortunata, perché, anche se era in carrozzina, era viva ed aveva il conforto della Fede in Dio. L’ho invidiata molto, vorrei anche io avere il sostegno di una profonda fede religiosa, mi aiuterebbe ad essere più tranquilla, ma ho sempre ritenuto che il giorno che io arriverò ad accettare la mia malattia significherà che la mia vita sarà terminata.
Amiche
di Michela Grande
E’ straordinariamente difficile dire se è la vita che ti cambia o se cambiamo nel corso della vita!
Ho incontrato nel mio cammino diverse donne disabili e non sono tante quelle che si raccontano, che si lasciano andare in confidenze, quelle vere, quelle che ti solcano dentro come un aratro e mentre parli sai che lo stai facendo per te stessa, perché è difficile ammettere certe verità.
Non esiste una strategia per affrontare una malattia che nel corso del tempo ti trasforma, ti cambia fisicamente e nell’anima…. Non c’è nessuno che ti possa dire che cosa fare, come affrontare la situazione, né i genitori, né gli amici o il compagno, il vicino di casa, il datore di lavoro. Non c’è nessuno che ti possa consigliare se è meglio affrontare la vita “a muso duro”, o se rispetto e “dignità” dagli altri si ottengono più efficacemente usando tutta la tua comprensione e dolcezza.
Ci sei solo tu che ti guardi allo specchio e non riesci a piangerti addosso, riesci solo a vedere una donna, diversa …. ma una donna!
Ho sempre considerato calze a rete e tacchi a spillo frivolezze assolutamente non necessarie, poi un giorno ho incontrato una persona speciale (purtroppo non c’è più) che nel corso della nostra breve ma intensa amicizia mi ha insegnato tante cose…
Due caratteri completamente diversi eppure così uguali nell’affrontare le avversità della disabilità:
io tormentata dall’ ESSERE e non dall’ APPARIRE,
lei lacerata dal NON POTER PIU’ APPARIRE ed ESSERE inesorabilmente in carrozzina!
Ed Anna un giorno mi ha “arato l’anima” con una delle sue confidenze: per lei era un dolore immenso non poter più mettere pelliccia e tacchi alti…
MERAVIGLIOSA ANNA, era una persona speciale, soffriva molto per la sua condizione in carrozzina ed a ogni peggioramento mi diceva: “sai oggi ho chiuso un altro scatolone…”, ed io capivo che in quello scatolone c’era qualcosa che per sempre finiva in soffitta.
Non ho capito la sua sofferenza fino al giorno che, “costretta”, ho tagliato i miei meravigliosi e lunghi capelli, piangevo mentre dicevo “… sai Anna sono molto più comoda così …”, ma lo dicevo piangendo, e lei con me!
Da allora non riesco più a considerare “frivolezze” quelle piccole cose che ti fanno sentire BELLA, anche se, guardandomi allo specchio, continuo a vedere una donna diversa ……. MA PUR SEMPRE UNA DONNA.
La nostra im-mobilità
di Gianfranco Bastianello
L’antefatto.
La zanzara si è posata sul mio occhio, provo a sbuffare cercando di scacciarla, niente. Si è già ancorata e sta tirando fuori la sua trivella per farmi il prelievo.
– Amore?! Puoi venire un secondo per favore? –
– Arrivo!! –
Passano i minuti, il mio amore deve finire di pettinarsi, deve stendere prima la biancheria, ….. poi arriva.
-Dimmi, caro! –
-No nulla, ormai non serve più –
-Oh Madonna, chi ti ha punto? Perché non mi hai chiamato prima? –
-Non importa, mi gratti, per favore? –
Già, devo elaborare il lutto, me l’hanno detto in molti, in questi anni. Qualche volta mi piacerebbe che anche la zanzara elaborasse il suo… di lutto. Non c’è un lutto da elaborare in certi momenti di impotenza. Perché io non posso pretendere di avere subito la mano che mi scacci la zanzara o che mi cambi canale, devo aspettare.
Ho già tutti i diritti del mondo: pensione, assistente personale, carrozzina, ausili vari… è giusto che io aspetti il tempo degli altri. Quindi devo accontentare la zanzara, fintantoché qualcuno verrà a scacciarla; devo stringere le chiappe fintantoché verrà qualcuno, che è a mia “disposizione”, a portarmi la “comoda”.
Vedi Napoli e…. ci ritorni!
E’ bello ritrovare volti persi un anno fa, ricominciare un cammino interrotto. Qualche faccia nuova, qualche faccia nota, qualcuno di rivisto dopo un anno di pausa e …. qualche assente di cui nessuno chiede dove è andato, o perché manca.
Quest’anno parliamo di noi, di come cambiamo col cambiare della nostra malattia, come attrezzarci dentro e fuori. Ci accompagna in questo percorso una bella e simpatica ragazza, Chiara Todaro (cognome veneziano).
Ritengo che per gente scafata come noi – nel senso che ormai ad una certa età le cose si sanno – potrebbe essere superfluo l’apporto di Chiara. Ci dice che dobbiamo elaborare il lutto per una perdita…. quella della nostra forza muscolare. Sì, sono cose che già sappiamo, ma ci piace sentircele dire, analizzarle, metabolizzarle. Perchè noi queste cose le abbiamo dovute imparare giorno per giorno, sulla nostra pelle e su quella di chi ci accompagna.
Elaborare il lutto, o il “problema”, come ci ha detto un’amica partenopea, per sdrammatizzare la situazione. Ma non c’è nulla né di drammatico né di comico nel nostro lutto. La nostra elaborazione non si ferma ad un giorno, come quando ci colpisce una disgrazia; ma dobbiamo continuarla tutta la vita perché, e anche questo è venuto fuori, ogni giorno abbiamo un nuovo lutto, che può essere il non riuscire più ad alzarsi, a pettinarci, a fare….. Da quel preciso momento ci rendiamo conto che un nuovo lutto ci ha colpito. Da ogni lutto, non ci resta che ripartire lungo il nostro percorso di vita… senza il nostro “caro” (braccio, mano, piede, ecc.), che ci ha abbandonato.
Abbiamo raccontato di come ci siamo attrezzati per affrontare il mondo dei “normali”. Abbiamo capito che per noi ormai il lutto fa parte della nostra vita, per cui abbiamo imparato a conviverci.
Di altro non abbiamo parlato e mi sarebbe piaciuto sentire invece di come i “normali” vivono la nostra disabilità.
Ma la risposta forse già ce l’ho, standardizzata: “vi amiamo, noi non vediamo la vostra disabilità, vediamo ed amiamo la persona che siete, ecc. ecc.”
Forse è questo il guaio: non ci vedono come disabili, per questo non capiscono che abbiamo bisogno che qualcuno ci scacci la zanzara. SUBITO!!!
Trovare la forza nella mente
di Katia Pietra
Se partiamo dal termine “evolutivo” senza associarlo al termine patologia abbiamo una parola dal significato soprattutto positivo: crescita, cambiamento, progresso, sviluppo, trasformazione, miglioramento e mutamento. Certo che ognuno di questi sinonimi, associato a situazioni specifiche, non è esente dal richiamare anche altre parole quali: dolore, paura, incertezza e rimpianto.
Penso soprattutto alle fasi normali della vita. La fase evolutiva del neonato e del bambino con i vari passaggi di crescita. Il dolore dei primi dentini, la paura dei primi passi traballanti e le cadute; il rimpianto inconscio di un luogo sicuro e protettivo come il ventre materno.
La scuola con i primi successi ed insuccessi, la conquista dell’autonomia bramata e temuta, pretesa ma anche schivata, se comporta fatica o rimpianto per quel periodo in cui eravamo socialmente considerati ancora “piccoli” per quella responsabilità.
L’adolescenza, dove sviluppo, trasformazione e mutamento dominano corpo e mente; dove i dolori, le paure, le incertezze e i rimpianti sono all’ordine del giorno.
Poi arriva l’età adulta, dove l’evoluzione della crescita fisica e mentale biologicamente raggiunge il vertice, dove l’individuo anche socialmente dovrebbe avere un ruolo; responsabilità, doveri, diritti da sviluppare. La natura biologica giunta al massimo della maturità non si accontenta di “stare”, ha bisogno, vive di cambiamento di, appunto, evoluzione, di svolta. Inizia il processo inverso alla crescita, il decadimento fisico e, nelle specie senzienti, mentale che in tempi e modalità differenti colpisce ogni organismo vivente.
A questo punto parlare dell’evoluzione di una patologia nella vita delle persone è un tassello da considerare a sé stante, ma comunque ritengo sia fisiologico cambiare; è nella natura stessa della vita.
Forse per me che non ho mai raggiunto e sperimentato l’autonomia del mio corpo è più facile accettare l’impossibilità nel governarmi da sola, anche se nello stesso tempo il desiderio, l’aspirazione nel “diventare grande” e far da sé c’è sempre. Si aggiunge poi invece la constatazione che la dipendenza aumenta sempre progressivamente.
Inizialmente è come una goccia in un bicchiere. Non è nulla quella fatica, quel peso in più a muoverti; poi, goccia su goccia, quel movimento, quell’autonomia diventano un macigno, e anche le gocce che riempiono il bicchiere finiscono col renderlo troppo pesante da sollevare.
Qualcosa come caparbietà e sfida sono ingredienti utili per compensare ancora per un po’ quella forza che viene a mancare. La parola d’ordine è “inventiva”, così che due “scatolini” di plastica per i formaggini diventano ottimi reggipolsi scorrevoli per scrivere al computer. Un bastone o una gruccia della lavanderia sono ottimi per raccogliere, sono leggeri e versatili; invece un gancio per le tende da doccia ha la forma giusta per agganciarsi all’orecchio e fermare l’auricolare. Sì, certo, ora ci sono auricolari tecnologici senza fili, i bluetooth, ma sono cari e pesanti se si tengono all’orecchio tutto il giorno, e non credo si possa usare contemporaneamente lo stesso sia per il cordless che per il cellulare. Navigando su internet ho scoperto un’introvabile forchetta telescopica, che serve a fare gli scherzi in pizzeria, rubando all’amico lontano il boccone dal piatto senza scomporsi (allungando il manico a forma di antenna delle radioline), ma è ancora più utile quotidianamente, usata a mo’ di leva, appoggiando il braccio sul barattolo dello zucchero. Ci sono poi gli ausili veri e propri come il mio bolide monoposto, esclusivamente cabriolet, ecologico, motore elettrico ad emissioni zero. Senza sarei persa, lo ammetto. Ora ho aggiunto un altro tassello al mio desiderio di indipendenza e mobilità, un sollevatore pieghevole, compatto e leggero, da trasportare (lo collaudo in una gita fuoriporta: vi terrò informati).
Certo serve sempre l’assistenza di una persona, e vivere tutta una giornata da sola è impossibile: anche con tutti gli accorgimenti e ausili, per vivere è indispensabile adattarsi all’aiuto di altre persone che ci assistono. Non trovo sempre facile questo passaggio di accettazione, ritengo anche sgradevole l’imposizione “hai bisogno, ti devi adattare a chi c’è”. Sarebbe bello poter scegliere da chi e come farci aiutare. Purtroppo, un po’ per incapacità un po’ per leggerezza culturale dei servizi preposti, si sottovaluta, nella relazione d’aiuto, l’importanza in un reciproco rapporto di simpatia, o perlomeno non antipatia. Così molte volte non è possibile scegliere l’assistente e questo è frustrante, soprattutto perché dobbiamo annullare molto della nostra vita intima, privata, che privata non può più esserlo.
Se la malattia evolve noi dobbiamo evolvere con lei. Noi cambiamo perché il nostro corpo cambia, la mente deve trovare la forza dove il muscolo la perde. Abbiamo la fortuna di vivere nel mondo evoluto, tecnologico, dove invenzioni e risorse esistono, certo, non sempre ci bastano per vivere come vorremmo. Ricordiamoci però, anche se non è totalmente consolatorio saperlo, che il periodo storico e il luogo di nascita e di vita in cui viviamo, ci possono permettere cose che altri, nelle nostre condizioni non possono nemmeno pensare di arrivare a fare.
Amati per ciò che si è
di Maria Pisano
Mi chiamo Maria e ho 26 anni. Da due anni sono socia della sezione UILDM di Napoli, benché non sia distrofica, ma affetta da tretraparesi spastica, una patologia che mi costringe, sin da bambina, a stare sulla sedia a rotelle.
Con la mia famiglia ho un ottimo rapporto. Sono davvero felice con loro, perché sin dalla mia nascita ad oggi, non hanno mai dato alcun peso al mio essere disabile. Non mi hanno mai compatita, mi hanno sempre vista e trattata come una persona normale.
Purtroppo essere disabile non è facile, non bisogna arrendersi mai, ma combattere contro tutta la società che ci circonda. Io spero sempre che un giorno le difficoltà di noi disabili si ridurranno.
A volte ho conosciuto e avuto a che fare con persone che, a differenza di chi mi vuole davvero bene, mi hanno fatto sentire diversa, anormale ed io in quei momenti pur sentendomi un po’ umiliata, ho pensato che io ero più “normale” di quanto lo fossero loro!!
Nonostante tutti i miei problemi fisici, sono una persona estremamente solare e allegra, sono socievole, estroversa, ma nonostante la mia patologia, che a differenza della distrofia, non peggiora nel corso del tempo, il fatto di sapere che non potrò mai essere autonoma nel fare anche i più semplici gesti, camminare, ballare, ect. ect…. mi fa rabbia, perché so che non potrò fare quello che fanno tutte le ragazze della mia età.
Ad ogni modo penso che le persone come me devono accettarsi per quello che sono e pensare, nonostante tutte le difficoltà che ci sono, che se Dio ci ha donato questa vita dobbiamo accettarla nel migliore dei modi e fregarcene di ciò che gli altri possono dire o fare, perché siamo persone non “anormali”, ma speciali e dobbiamo essere accettate ed amate così come siamo!
Nessun pollo per me
di Simona Lancioni
A distanza di anni al ristorante si ricordavano ancora di lui. Chissà, forse perché indossava spesso lo stesso maglioncino giallo. Con solerzia il cameriere lo fece accomodare e prese l’ordinazione, quindi si dileguò nei meandri delle cucine. Ricomparve qualche minuto dopo con una pila di piatti – una sorta di scultura moderna – che depositò proprio davanti a lui, non senza aspettarsi un cenno di ringraziamento che, meccanicamente, non tardò ad arrivare. La scultura aveva lo scopo di accorciare la distanza tra il piatto e la bocca. Una distanza banale per chiunque, ma difficoltosa per chi ha le braccia indebolite da un’amiotrofia spinale. Non ebbe il coraggio di confessare al cameriere che ora, con la progressione della malattia, anche quella distanza ridotta era diventata insormontabile per lui, e che avrebbe mangiato con l’aiuto di un assistente. No, non ebbe il cuore di dirglielo, così mangiò sovrastato dalla scultura moderna, quasi fosse un monumento alla Dea pagana della Gentilezza e alla sua inutilità.
Quando iniziai a militare nella UILDM non avevo ben realizzato cosa fossero le distrofie e cosa comportasse la loro evoluzione per coloro che ne sono interessati, e per chi vive accanto. Avevo assimilato queste informazioni in modo nozionistico, senza legarle in modo diretto alla mia persona o a persone a me care. Una dissociazione cognitiva assimilabile a quella di chi, pur leggendo sul pacchetto delle sigarette “il fumo uccide”, continua a fumare. Non ha capito? Non ha registrato l’informazione? Suppongo di sì, dal momento che è impossibile eluderla: le scritte terroristiche coprono buona parte di tutti i pacchetti, desolatamente bordate di nero, come moniti sinistri tesi a promuovere l’autoconsapevolezza di chi – probabilmente – di quella consapevolezza farebbe volentieri a meno. Ma se hanno capito perché continuano a fumare? Tutti masochisti impenitenti? Tutti aspiranti suicidi? Direi di no: credo semplicemente che queste persone abbiano messo una distanza tra quell’informazione e sé stessi. Che il fumo uccida non è una certezza, è solo una probabilità e, tutto sommato, le statistiche, per quanto catastrofiche, non sono altro che generalizzazioni, vale a dire bugie. Bugie basate su una scienza – la statistica – che induce ad affermare che se io non ho nessun pollo e tu ne hai due, vuol dire che, statisticamente parlando, abbiamo un pollo a testa….
Tratto distintivo (e difensivo) tutto umano quello di mettere tra parentesi, se le situazioni lo consentono, le cose che in quel momento la persona non è in grado di recepire. Poi cambia qualcosa ed eludere l’informazione non è più possibile, anche perché, davanti alla morte di persone care, voler tenere chiuse le parentesi apre le porte al delirio.
Esistono circa trenta tipi diversi di distrofia, ognuna con insorgenza e decorso differenziato. Ma tutte evolvono. E’ giusto essere onesti su questo, però è altrettanto importante rispettare i tempi di ognuno e polverizzare l’informazione al fine di favorirne la ricezione, la comprensione e l’elaborazione. Il dolore e la crisi sono inevitabili, ma va chiarito che è possibile uscirne, che nessun dolore – neanche quello più terribile – dura per sempre. Non concordo col partito del «che c’è da dire?» perché non è vero che parlarne non serve a niente. Serve, ad esempio, lavorare sulle capacità di adattamento. Serve scoprire che, anche se dalla malattia non si guarisce, è sempre possibile scegliere il proprio atteggiamento davanti ad essa. Serve constatare che i momenti di smarrimento e di sfiducia sono condivisi da chi vive situazioni analoghe, ma anche che c’è chi riesce a reagire e a costruirsi nuovi equilibri, magari cercando altri aspetti da valorizzare, su cui puntare, da cui ricominciare. E’ un lavoro ambizioso, oneroso e lungo che concede poca tregua e molti sbalzi d’umore, però sono ottimista perché l’uomo ha in sé una potenzialità straordinaria: quella di crescere in relazione ai compiti che la vita gli assegna. Io credo veramente che attraverso questo percorso, l’uomo, se vuole e se ci crede, potrebbe anche scoprirsi infinito. Pieno di cicatrici e ricordi di maglioncini gialli, ma infinito.
L’equilibrio è una canzone
di Annalisa Benedetti
In qualche momento è difficile trovare le parole. Per questo motivo Annalisa ha deciso di esprimere il suo pensiero prendendo “in prestito” quelle di una canzone di Eros Ramazzotti.
L’equilibrista (Eros Ramazzotti)
Com’è diverso il mondo visto da qui
sopra un filo immaginario nel silenzio che c’è
attraverserò l’immenso che ho davanti a me
ali nel vento per volare non ho
sfiderò nell’aria la forza della mia gravità
muoverò le braccia aperte nell’infinità del blu
com’è lontano il mondo visto da quassù
dimenticando il grande vuoto intorno a me
senza mai voltarmi indietro me ne andrò da qui
La strada del mio cuore io ritroverò
in equilibrio fino in fondo arriverò
dove si respira liberi
E’ la vertigine più grande che c’è
stare qui sospeso a sentire questa vita com’è
giocoliere di me stesso io volteggerò nel blu
com’è vicino il cielo visto da quassù
dimenticando il grande vuoto dentro me
senza mai voltarmi indietro me ne andrò da qui
La strada del mio cuore io ritroverò
in equilibrio fino in fondo arriverò
da solo dentro il blu
da solo senza mai cadere giù
mai più
Senza mai voltarmi indietro me ne andrò da qui
vedrò sul filo della provvisorietà
l’equilibrista non si chiede mai cos’è
la stabilità vive l’illusione e la realtà
Com’è diverso il mondo visto da qui
E le cose belle accadono
di Elisa Tocchet
L’adattamento è una condizione quotidiana dell’esistenza di tutti, ma, attingendo alla mia esperienza di portatrice di una malattia neuromuscolare, posso dire che per noi – soprattutto per chi ha una malattia degenerativa – l’adattamento è maggiormente difficile. Infatti non c’è il tempo di adattarsi a una nuova situazione, che il corpo te ne propone subito un’altra. Io sono fisicamente stabile da diversi anni, e questo mi ha permesso di andare al di là del corpo ed occuparmi di altre cose: università, amici, relazioni. Cose che comportano cambiamenti rispetto ai quali è possibile operare una scelta, a differenza di ciò che accade nelle modificazioni del corpo, dove non abbiamo voce in capitolo. Se le gambe non ci sostengono non possiamo mediare, possiamo solo accettare oppure no.
I cambiamenti ci sono tutti i giorni e a volte sono facili da affrontare, altre volte meno. L’importante è essere sereni, puntare su obiettivi a breve termine e cercare, nel piccolo, strategie per essere positivi… io non credevo che un giorno avrei trovato una persona da amare, e, soprattutto, che mi amasse. Pensate che cambiamenti in questi tre anni: trasformazioni reciproche, adattamenti a esigenze molto diverse… ma ora si parla di vivere insieme, di passare una parte della vita a prenderci cura l’una dell’altro. Non l’avrei mai pensato qualche tempo fa, ma è successo… siate felici e le cose belle accadono… e, scusate, ma vi lascio con un piccolo annuncio personale: “Diego ti amo!!!”