Contributi

La necessità aguzza l’ingegno

di Piera Becherini

Se penso alla forza, la resistenza, la voglia di fare che avevo quando ero più giovane mi sento diversa e mi viene tanta nostalgia. Dopo però penso alla tolleranza, alla tenacia, alla sicurezza che ho acquistato, sorrido e mi sento soddisfatta.

La diversità può essere l’esito di un cambiamento, di un nuovo equilibrio, di un andare avanti di fronte ad una malattia, ad una nuova condizione. Ad esempio tutti invecchiamo e siamo chiamati a misurarci col deterioramento organico che ci rende diversi e spesso meno autonomi.

Oltre a considerare i molteplici tipi di diversità è utile riflettere sui diversi atteggiamenti che essa suscita in coloro che la vivono e devono affrontarla. Alcuni, ad esempio, si deprimono, altri diventano più forti, altri ancora elaborano ed escogitano risposte nuove ed originali, altri poi, dopo un momento di smarrimento, trovano un loro nuovo equilibrio.

Andando oltre la riflessione teorica, e ripensando alle persone che ho conosciuto nel mio lavoro di logopedista, rivedo una bella bambina di seconda media che aveva un’agnosia visiva che non le permetteva di riconoscere gli oggetti e le figure. Una difficoltà che le creava molti problemi sia per l’autonomia, sia per la vita sociale. Il suo insegnante di sostegno, nel presentare la bambina al gruppo classe, spiegò che cos’era l’agnosia visiva, e lo fece con un tale fascino e suscitando una tale curiosità che sembrò una forma originale di vedere la realtà. Una spiegazione che ben presto trasformò quell’alunna nella bambina più ricercata della scuola. Questo approccio si rivelò molto efficace anche sul piano dell’autostima della bambina, infatti lei, forte dell’accoglienza ricevuta, si impegnò moltissimo nel percorso riabilitativo, nei compiti scolastici e cercando di essere più autonoma possibile nella propria abitazione.

Un altro personaggio che mi viene in mente è un ingegnere balbuziente che – pur amando l’architettura – aveva scelto di studiare ingegneria perché, essendoci in questa facoltà molti esami scritti, avrebbe dovuto “parlare meno”. Mi cercò perché doveva sostenere un esame orale molto seguito anche dagli altri studenti e lui voleva imparare a gestire la balbuzie. Si impegnò tantissimo, e dopo circa due mesi riusciva a controllare la respirazione e, con un piccolo stratagemma, anche a parlare più lento, senza inceppi. Dopo l’esame mi venne a trovare per informarmi che gli era andato molto bene e che era felice. Però dopo alcuni mesi mi telefonò per chiedermi un appuntamento: aveva bisogno di parlarmi. Venne ad annunciarmi che non stava più bene, che non si riconosceva in quel nuovo modo di parlare e che aveva deciso che avrebbe ricominciato a balbettare: per ritrovarsi, per essere se stesso. Era tornato da me perché riteneva corretto dirmelo. Se per le persone comuni la normalità consiste nel non balbettare, per lui la normalità consisteva nell’essere balbuziente.

Altri esempi di diversità che mi vengono in mente sono quelli di chi si sente diverso perché ingrassa con facilità, oppure di colui che non si omologa, che non segue la “corrente”. Anche la disabilità – non c’è dubbio – può essere considerata una diversità. Rispetto ad essa mi affascina constatare l’ingegno con il quale alcune persone riescono a superare i propri limiti. Soluzioni originali e fantasiose alle quali, probabilmente, in assenza di difficoltà non sarebbero mai giunte.

Io e Sara

di Annalisa Benedetti

Lo ricordo come se fosse ieri. Ma siamo nel 1977. Primo giorno di scuola elementare. Maestra unica. Grembiule nero e fiocco rosa. Cartella rigida. Qualcuno dei miei compagni si conosceva già. Avevano frequentato l’asilo del paese. Io non conoscevo nessuno. Non lo avevo frequentato. Mi sentivo diversa.

Dall’altra parte dell’aula, ad una compagna resta accanto per tutta la mattina una persona adulta. Quando torno a casa lo dico alla mamma. “Sai che una bambina è rimasta in classe con sua cugina? Come mai lei sì e tutti gli altri no? Che cos’ha di diverso?”.

Passano alcuni giorni. I banchi vengono disposti a ferro di cavallo. L’ambientamento è lento e graduale. Io sono nella fila di banchi di fronte a quella in cui hanno messo Sara. La bambina che continua ad avere il privilegio di avere accanto la cugina.

Un giorno, durante l’intervallo, noto che Sara è tenuta per mano da una compagna che le bisbiglia qualcosa all’orecchio mentre si cammina per il giardino della scuola. Poi noto che Sara guarda spesso verso l’alto e il movimento delle sue palpebre e dei suoi occhi è diverso. Chiedo alla compagna che cos’ha. Questa, fulminandomi con lo sguardo, mi dice di stare zitta. Io insisto. Allora, sottovoce in disparte, mi dice che Sara è cieca, ma che non bisogna dirglielo. Bisogna trattarla come tutti gli altri, facendo finta di non sapere. Così, non si sentirà diversa.

Quella che la mia fantasia aveva fatto diventare sua cugina, era l’insegnante di sostegno.

Da quel giorno il mio interesse principale fu Sara. Non ricordo come fosse avvenuto l’approccio. Probabilmente nel modo più naturale e spontaneo. Salutandola e presentandomi. Lei altrettanto. Senza bisogno di specificare nulla. Eravamo come eravamo. Bambine.

Evidentemente ci siamo piaciute perché da quel momento eravamo diventate inseparabili.

Avevo ottenuto di stare nel banco vicino a lei. Lei scriveva con la tavoletta braille. Ogni tanto con una mano mi toccava il viso, un braccio, le spalle. Era il suo modo per conoscermi, capire com’ero fatta, com’ero disposta nello spazio. Quando mi toccava i capelli, confesso, era una goduria.

Quando ci si muoveva nell’edificio scolastico e quando si andava in gita, tenendola per mano, le segnalavo gradini e buche e le descrivevo ogni cosa che vedevo. Lei mi aveva insegnato l’alfabeto braille. Avevo imparato a scrivere con il punteruolo e la tavoletta. Però leggevo con gli occhi. “Ma come fai?”, mi aveva chiesto sconvolta. “E tu, come fai a distinguere le lettere con i polpastrelli delle dita? Non ci riuscirò mai!”. E giù una risata.

Durante le ore di ginnastica, all’inizio Sara veniva confinata in una parte della palestra con l’insegnante di sostegno. Chiesi alla maestra se poteva fare ginnastica con tutti noi. Le sarei stata accanto io. Così fu. Alla fine, giocava anche a palla prigioniera. Quando si formavano le squadre, Sara era sempre l’ultima ad essere scelta da chi quel giorno era il capitano. Era scomoda in squadra perché era tra i primi prigionieri. Infatti, quelli della squadra avversaria, non si facevano scrupoli a colpirla per prima. Difficile anche che qualcuno le desse la palla. Chi avrebbe potuto colpire, non vedendo? Eppure, in squadra c’era, giocava e si divertiva insieme a tutti.

In cinque anni di elementari Sara aveva cambiato due, forse tre insegnanti di sostegno. Nessuna lezione o programma differenziati. Era sempre rimasta in classe con tutti noi, esame finale compreso. Il tema l’aveva scritto in braille, con la macchina apposita.

Col tempo avevamo cominciato a frequentarci anche fuori da scuola. Io andavo a casa sua e lei veniva a casa mia. A volte facevamo i compiti, ma il più delle volte giocavamo e basta. Ci inventavamo i giochi più disparati. Era bello con lei perché non si giocava con i giocattoli convenzionali. Bambole,  libretti da dipingere, qualsiasi altro gioco da tavolo o che implicava prevalentemente l’uso della vista, non era preso in considerazione. Il nostro gioco preferito era recitare. Fondamentalmente ci inventavamo delle storie e, come nelle telenovelas, improvvisavamo copioni su copioni, con personaggi immaginari o della nostra realtà e trame sempre più contorte e strampalate.

Si giocava anche a nascondino. Ci eravamo date delle regole. Era vietato nascondersi dentro gli armadi. Solo in luoghi della casa dove Sara poteva arrivare con le braccia. Io, ovviamente, non dovevo barare. Se lei mi trovava, ma con le mani non mi raggiungeva subito, io a un certo punto dovevo farmi sentire, non fare finta di nulla, stare zitta zitta e lasciare che lei se ne andasse a cercarmi altrove.

Ogni tanto si guardava la TV. Lei ascoltava. Quando voleva sapere che cosa si vedeva, chiedeva.

Quando a scuola vedevamo i film, le descrivevo le scene. Col tempo avevo imparato ad anticipare le sue richieste. Il mondo mi è crollato addosso quando ho dovuto mettere “l’apparecchio” ai denti. Era un apparecchio mobile che non riusciva a farmi parlare bene. Più che sputacchiare malamente non facevo. E  tutti mi guardavano come un’aliena. Persino Sara, un giorno, mi aveva detto: “Caspita, ma che cosa ti hanno ficcato in  bocca?”. Da quel giorno non l’ho più messo a scuola.

Eravamo diventate vere amiche del cuore, come si suol dire. Verso la fine delle elementari, i discorsi cominciavano a sfiorare anche la sfera della sessualità. Parlavamo dei primissimi cambiamenti che avvertivamo nel nostro corpo. Ci immaginavamo il tipo di ragazzo che potesse piacerci. Le sensazioni che avremmo provato o che già ci capitava di provare.

Cominciavamo a chiederci che cosa avremmo fatto da grandi. Le professioni più improbabili, le vite più incredibili. Dalla scienziata, astronoma, ricercatrice luminaria, alla moglie di un importante uomo d’affari, accasata in villa con piscina e maggiordomo per i molteplici ricevimenti che avrebbe dovuto dare, a volte con figli, a volte senza. Dalla scrittrice, giornalista, docente universitaria, alla contadina con fattoria piena di animali da accudire.

Niente veline, “troniste” o miss. Si sognava di diventare famose facendo mestieri di prestigio, tutt’al più diventando attrici, oppure musicista e ballerina. Sara aveva cominciato a prendere lezioni di pianoforte, io di danza classica. Ci immaginavamo insieme, nei teatri più belli del mondo, lei a suonare e io a danzare sulle sue note.

Terminate le scuole elementari,  le nostre vite si sono separate, abbiamo preso strade diverse. Non ci siamo mai più riviste e nemmeno mai più sentite per telefono. Per alcuni anni ho vissuto col senso di colpa di averla abbandonata.

Epilogo

Molte altre volte in mille altre occasioni mi sono sentita diversa. A volte, quel sentimi diversa mi pesava, mi imbarazzava, impacciava, inibiva. Altre volte, quel sentirmi diversa, mi fortificava, incoraggiava, inorgogliva. Sempre, quel sentirmi diversa, derivava da un giudizio.

La vita, mi ha portato a confrontarmi con molte persone. Il mio percorso, quasi quarantenne, ha incrociato, sfiorato e sbattuto in centinaia di altri percorsi, altre storie. Storie di ordinaria diversità. Ne sono uscita sempre arricchita.

È la nostra diversità che ci rende unici. È la nostra diversità che ci identifica. Ma è grazie alla diversità altrui che passa, anche, il nostro processo identificativo. È la diversità altrui che ci plasma, ci permette di crescere e scoprire, migliorare o peggiorare, aprire o chiudere i nostri orizzonti, essere tolleranti o intransigenti.

Questa è la mia storia. Il mio percorso. Questa sono io.

A Dio piacendo la mia storia e il mio percorso continueranno. Io cambierò, imbattendomi in altre storie di persone. Ogni tanto mi fermerò a tirare le mie considerazioni. Come in questa occasione.

Ma il mio pensiero correrà sempre a Sara. La prima storia, il primo incontro, la prima persona significativa della mia vita.

Mi piacerebbe rincontrarla. Adesso sarei pronta. Siamo come siamo. Adulte.

Questo racconto è dedicato a lei.

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Elisa Di Lorenzo

Salve a tutti. Permettetemi ancora una volta di ringraziarvi per il grande ed importante lavoro che svolgete costantemente e con cura, facendoci riflettere ma soprattutto dandoci la possibilità di esprimere una nostra idea su ogni tema trattato all’assemblea annuale.

Anche io sono sempre stata del parere che estendere e confrontare  la nostra disabilità “in quanto affetti da malattia neuro muscolare” ad altri tipi di disagio dovuti ad altre cause fosse molto positivo per cui credo che sia stato molto importante ascoltare le quattro coraggiose e significative testimonianze intervenute quest’ anno all’assemblea.

Accetto quindi volentieri l’incarico di inviarvi un mio piccolo contributo che attesti il pensiero frutto di personali esperienze  riguardo al tema scelto quest’ anno.

Per molti anni anch’io ho provato quel maledetto senso di diversità di cui oltre a vergognarmene molto mi ha fatto sprofondare nella sfiducia completa  in me stessa e creato molta rabbia e vuoto intorno a me.

Poi stanca di concentrare tutti i pensieri su di me iniziai ad osservare con prospettive diverse quello che mi accadeva intorno ed in relazione al prossimo.

Cominciai ad osservare molto la natura con la quale avevo un po’ perso i contatti e mi resi conto che poi alla fine la diversità esiste in ogni forma di vita e me ne feci una ragione.

Mi resi anche conto che da sempre, sia la scienza con i suoi continui studi che la storia con le sue varie culture ci hanno raccontato testimonianze assurde e raccapriccianti così mi convinsi che è proprio da queste diversità, anomalie  o gravi limitazioni di pensiero che i popoli prima e le singole persone poi hanno contribuito a far nascere nel tempo discriminazioni e fobie per il diverso.

Non voglio certamente citare discorsi difficili o più grandi della mia povera cultura ma andando avanti con l’età  e dalle molteplici esperienze trascorse mi sono sempre più convinta che davvero ognuno di noi ha una sua diversa disabilità.

Alcune sono lievi, altre vengono ben nascoste, altre ancora non sono visibili perché di pensiero e poi ci sono quelle che tutti possono vedere e che purtroppo richiedono molto più coraggio da parte dell’affetto poiché necessitano di grande sforzo per imparare a conviverci; si finisce per scoprire che più  si tollera questo stato di disagio meglio si  riesce ad instaurare un sereno rapporto con gli affetti vicini ma anche verso chi è chiamato ad aiutarci nella vita quotidiana.

Io appartengo da molti anni a questo ultimo modello di diversità ed  ho conosciuto davvero moltissime  persone che vi appartengono e che hanno saputo tirar fuori coraggio e doti davvero ammirevoli che hanno stupito persone normo-dodate e comunità intere; ma ahimè sono rimasta anche molto delusa da alcuni comportamenti egoisti e di vittimismo che hanno segnato

“negativamente “altrettanto alcuni tratti della mia vita.

Purtroppo tolleranza e rispetto verso il prossimo spesso è carente anche tra stessi diversamente abili per cui molti contatti che credevo sinceri sono svaniti come  fuochi di paglia e questa cosa mi ha fatto molto soffrire.

Colpita dalla sofferenza e dall’angoscia ho compiuto molti errori anche quando la malattia si è manifestata rendendomi diversa e debole nel fisico ma come molti colpiti da simili sventure con il tempo ho saputo anche riaprirmi agli altri dimostrando che potevo sfruttare altre potenzialità e non aver paura di vivere pur avendo addosso una malattia progressiva.

Scrivere e rileggermi nei miei vari stati d’animo mi ha aiutata molto ed in occasione dei miei sessanta anni ho voluto regalarmi una raccolta dei miei scritti di circa 25 anni di malattia; un libro che parla della mia vita partendo da una infanzia sana e serena a quella dell’età  matura con la sorpresa  della diagnosi di  malattia di Charcot-Marie-Tooth

Ad un anno e mezzo dalla conclusione del libro però, purtroppo non ho ancora trovato la persona giusta che possa aiutarmi a pubblicarlo ma continuo ad avere fiducia perché mi piacerebbe molto farlo leggere a tante persone colpite della mia stessa malattia ma anche a quelle persone che non la conoscono e non immaginano neanche il danno che può creare una diagnosi di una malattia neuro-muscolare.

”Storie di ordinaria diversità”:  penso che ormai tutti siamo consapevoli che le Istituzioni con le litigiose politiche e con leggi che continuano a togliere sempre qualcosa ai più deboli non aiutano a migliorare il tenore di vita, e poi  la società che mai come in quest’ epoca continua a perseguire il bello, il perfetto ed il  frivolo ostacolando quel passaggio importante per poter abbattere il muro della diversità. Voglio però rimanere fiduciosa, augurandomi che  almeno per le prossime generazioni tutto possa migliorare verso la compatibilità per il diverso.

Soprattutto spero che si intensifichi sempre più il numero di persone che sanno affrontare con determinazione e coraggio le dure lotti per i diritti dei più deboli denunciando a viso aperto ogni tipo di discriminazione verso ogni tipo di diversità.

Edoardo Facchinetti

Sono un uomo di cinquant’anni con tetraparesi spastica; è anche questa una forma di handicap lentamente progressivo, che colpisce i centri neurologici e nervosi.

Faccio parte sia come socio fondatore che come socio lavoratore di una cooperativa sociale, e mi occupo di formazione su varie tematiche che riguardano l’handicap, soprattutto la tematica handicap e sessualità. Inoltre ho una componente femminile che vorrei essere il più possibile libero di esprimere, con la quale devo fare i conti culturalmente e religiosamente.

Infatti mi sento e tento di comportarmi il più coerentemente possibile da laico cristiano, dato che su molte questioni con la Chiesa cattolica e con le sue enunciazioni, non mi trovo per nulla in sintonia, per esempio su ciò che riguarda la questione della qualità di vita durante la malattia.

Ritengo più importante la qualità che non la quantità di vita della persona ammalata, per cui sarei assolutamente contrario ad ogni forma di accanimento terapeutico, anzi vorrei che gli scienziati e i medici investissero tutte le loro energie nel togliere ogni forma di dolore, perché ritengo che sia il dolore fisico a togliere quel tanto di dignità alla fase terminale della vita terrestre.

Politicamente anche se, visto i risultati, (sarà meglio dirlo sotto, sotto, sotto voce), mi sento un libertario comunista. Con tutte queste principali diversità devo ogni giorno, ogni istante della mia vita, tentare il più possibile una convivenza e una sintesi e un controllo di tutte queste principali componenti, e portarle con me a contatto anche con altre e diverse uguaglianze.

Giorgia Filiani

Sono una ragazza di ventun’anni diversamente abile dalla nascita, il mio percorso di crescita è stato fin da subito lastricato di difficoltà e di diversità nel fare le cose.

In famiglia all’inizio i miei genitori non sapevano rapportarsi con me, ma soprattutto non capivano quale fosse la strada migliore per ottimizzare le mie capacità.

Dovete pensare che io sono la “figlia femmina voluta”.

È stato molto difficile per i miei familiari accettare che un figlio tanto voluto non fosse “Normale”, ma poi con il passare del tempo hanno imparato a conviverci. Mi dimostravo nonostante le mie difficoltà motorie una bambina molto vivace, sveglia e con tanta voglia di vivere. Il mio carattere è stato messo comunque alla prova, non tanto alle scuole elementari, ma quanto alle medie e alle superiori, perché ho trovato un gruppo classe che aveva paura del “Diverso,” infatti, quando era ora di fare educazione fisica nessuno di loro provava a darmi una mano per andare in palestra, ed io mi sentivo triste e sola.

Un’altra forte delusione l’ho avuta quando ho preso la mia prima cotta per un mio compagno di classe che mi ha rifiutato dicendomi: “non posso mettere con te perché mi priveresti di una corsa all’aria aperta”. In quella circostanza mi sono sentita crollare il mondo addosso ed ho pensato che non mi sarei mai più innamorata, ma mi sbagliavo… Infatti, Sabato 4 Agosto 2007 ho conosciuto il mio attuale fidanzato e il mio futuro marito, si chiama Stefano, ha ventiquattro anni, è di San Salvo ma per me si è trasferito a Montesilvano.

Da subito mi ha corteggiata con dolci messaggini e intense dichiarazioni, siamo usciti sempre insieme, lui mi portava sempre con sè, dimostrandomi che non si vergognava di me ma che ne era fiero, facendo salire la mia autostima.

Mi ha fatto sentire bella e desiderata come se fossi l’unica donna sulla faccia della terra, facendomi sentire più sicura e importante.

Mi ha portato a scoprire la mia sessualità, facendomi capire che anch’io potevo avere una vita affettiva regolare, fugando tutti i miei dubbi sulle mie possibilità fisiche e personali facendomi sentire completa.

Stefano ha fatto quello che nessuno ha fatto mai: è andato oltre le apparenze fregandosene del giudizio degli altri e facendo valere i suoi sentimenti.

Secondo me la mia storia testimonia che è vero quando si dice che oltre le gambe c’è di più!

Storie di ordinaria diversità

di Gianna Foschi

Una frase poco tempo fa mi ha molto colpito: non ci sono posti riservati alle mamme, andare in giro con il passeggino in macchina da sole è difficoltoso… infatti se riesci a trovare parcheggio è facile che non ci sia lo spazio per aprire il portabagagli o lo sportello.

Questo mi ha fatto riflettere su come ci si sente diverse, ma soprattutto sole, quando si diventa mamme. Nella società in cui viviamo, anche nel passato, la crescita dei bambini, il lavoro di cura è un compito femminile. Viene esaltata la gioia di avere dei figli, c’è tutta una costruzione poetica della maternità, poi ti trovi con una scarsa disponibilità della società e dell’ambiente.

Per ogni donna che abbia la possibilità di sceglierlo liberamente, avere dei figli è un momento ricco di novità e magari ci sono anche soddisfazioni, ma anche in questo caso ci sono momenti molto impegnativi, c’è la sensazione di aver passato giorni senza aver ‘fatto’ nulla, nel senso di non aver potuto fare altro che stare vicino al proprio piccolo.  Crescere non viene considerato un lavoro, mi è  capitato di sentire anche da amiche dire che una loro collega non faceva nulla, era in maternità…

Quello della maternità è tempo perso, e poi di che ci si lamenta, abbiamo una legge tra le migliori al mondo! Intanto ci tengo a sfatare questo mito: non solo non è vero, e stiamo pericolosamente tornando indietro (ci sono stati licenziamenti di mamme con figli di età appena superiore ad un anno probabilmente perché la legge dice che non si può licenziare nel primo anno di vita del figlio, ma non specifica nulla riguardo al secondo anno), ma una legge è tale se e solo se è uguale per tutti e così non è per la maternità applicata a volte male nel settore pubblico o nella grande ditta e per nulla in quello privato.

Andare in giro con la macchina presenta difficoltà a cui non avevo pensato, io ho sempre girato coi mezzi pubblici legandomi il piccolo o la piccola al corpo con una fascia, comodissima anche se si dovesse usare la macchina. Ma non è questo il punto. Mi è capitato di non poter salire su un tram perché l’autista ha applicato un regolamento che non permette di salire con le biciclette. Mio figlio di tre anni aveva una cammina-bici, a Roma ce n’erano poche, adesso cominciano a vedersi anche in alcuni centri commerciali, e mia figlia di quasi un anno dormiva legata al mio fianco. La cammina-bici ha l’aspetto di una bicicletta di grandezza delle ruote 12, ma non ha pedali, un mezzo molto comodo per insegnare ai piccoli le regole della strada. Il comportamento dell’autista in quella situazione mi ha stupito, oltre aver scioccato mio figlio, ma quello che mi ha colpito di più è stata una voce che proveniva da qualche posto lì vicino: il regolamento è il regolamento! Bene. Mi sono arresa, non si può dare cattivo esempio, soprattutto davanti ai propri figli. Allora mi sono documentata ed ho scoperto che invece in una busta, come giocattolo, avrei potuto portare la cammina-bici, al limite pagando il biglietto se le dimensioni superavano un tot, come succede per i bagagli, mentre i passeggini vanno tenuti chiusi nei mezzi pubblici. Questo vuol dire che se sono sola con un bimbo, posso rimanere a bordo tenendo in braccio il bimbo e il passeggino con l’altra mano disponibile, e, se non ci sono posti a sedere disponibili (può anche capitare che vicino hai solo persone anziane e non le vuoi far alzare), stai in piedi appoggiata ad una parete quando ti va bene.

Potrei continuare con l’allontanamento di alcune mamme che allattano da supermercati, ristoranti,  musei e altro: ci sono vari episodi in proposito. L’allattamento è sicuramente un bisogno fisiologico,  ma è più simile a mangiare in pubblico che ad urinare. Però stranamente per alcuni va fatto in privato oppure ci sono i biberon, che diamine!  Oppure potrei, cambiando argomento nella forma, non nella sostanza perché nascita e morte sono legati, raccontare di episodi riguardanti gli ultimi giorni di persone care.

Manca la disponibilità a considerare situazioni diverse, a prevedere la possibilità di esigenze che, come nel caso di bambini che crescono, sono transitorie. La crescita dei bambini, invece, riguarda tutti, non solo le mamme o le/gli insegnanti nella scuola dell’obbligo. La cultura, il benessere, la civiltà di una popolazione si vede nelle piccole cose. Al di la’ dei regolamenti che non possono obbiettivamente tenere conto di tutte le possibilità che possono presentarsi, occorrerebbe sviluppare il senso critico di ognuno, non siamo automi, ma esseri pensanti. Per questo la crescita è un impegno di tutti. Impegno anche a novantanni, non si finisce mai di crescere. Impegno anche maschile, viviamo in una società in cui gli uomini si occupano di affari, religione, economia, lavoro, tecnica, ecc. ma non della cura dei propri cari. Perdendo tanto a livello emotivo e generando un sistema di leggi e regolamenti miope che peggiora la qualità della vita.

Le mani chiuse

di Simona Lancioni

«Prima di tutti, vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendermi e non c’era rimasto nessuno a protestare.»

Parafrasi (di incerta attribuzione) di una poesia di Martin Niemöller.

Joy Johnson era nigeriana, aveva ventiquattro anni, e per vivere faceva la prostituta. Joy era clandestina ed era malata ma, per paura del rimpatrio, non è andata a farsi curare. Joy è morta a Bari lo scorso marzo per tubercolosi polmonare avanzata. La tubercolosi è una malattia contagiosa che si trasmette per via aerea. Prima di morire Joy potrebbe aver contagiato decine di persone che avevano avuto rapporti con lei, i soccorritori che le hanno prestato assistenza, e i connazionali del centro d’accoglienza dove aveva vissuto per un mese. Se fosse andata a farsi curare sarebbe ancora a viva e a Bari non sarebbe scattata l’emergenza sanitaria.

Vira Orlova, si faceva chiamare Ylenia, era di nazionalità ucraina, ed era venuta in Italia – forse due anni fa – per fare la badante. Anche Vira, come Joy, era clandestina. Avrebbe compiuto quarant’anni l’11 giugno, ma è morta qualche giorno prima (i quotidiani ne danno notizia il 9 giugno) a Torre a Mare (nel barese). Si è sentita male. Ha cominciato a perdere sangue, probabilmente a causa di un aborto spontaneo, ma non ha voluto chiedere aiuto per paura. Il suo corpo è stato trovato esanime in una pozza di sangue.

Oltre ad uccidere, le regole che ci stiamo dando in tema di immigrazione, minano la nostra stessa sicurezza. Proprio quella sicurezza che quei provvedimenti vorrebbero rafforzare. I casi di Joy Johnson e Vira Orlova esprimono in modo emblematico l’atteggiamento che una parte significativa della nostra società ha nei confronti del diverso. Un diverso che nei casi specifici è l’immigrato/a clandestino/a, ma che in altre circostanze potrebbe diventare l’ebreo, il mussulmano o il cristiano, oppure il disabile, l’omosessuale, l’ex carcerato, il meridionale, il tossicodipendente… A guardar bene ognuno/a di noi – chi per un motivo, chi per un altro – esprime una propria specificità e, in definitiva, una diversità. Ne consegue che ognuno/a di noi rischia di ritrovarsi – prima o poi – dalla parte del bersaglio. Pertanto non dovrebbe essere necessario essere filantropi per reagire a certi atteggiamenti, dovrebbe bastare questa semplice considerazione.

Ma se proprio questa motivazione non dovesse bastare potremmo iniziare a riflettere sugli stili di vita delle popolazioni occidentali, sulla loro (nostra) opulenza, sul loro (nostro) spreco. Se lo facessimo capiremmo – senza neanche fare troppa fatica – che “non ci siamo fatti da soli”, che il nostro benessere è stato costruito – e si mantiene – attraverso il saccheggio ai danni dei Paesi del Sud del mondo, le guerre per l’accaparramento delle risorse e il degrado del pianeta. Scrive Francesco Gesualdi del Centro nuovo modello di sviluppo: “Se il mondo fosse un palazzo di cinque piani, abitato da cento persone suddivise in gruppi di venti per piano, scopriremmo che gli individui dell’attico arraffano, da soli, l’86% della ricchezza prodotta. Quelli del piano di sotto si appropriano del 9%, mentre quelli dei due successivi ricevono il 2% ciascuno. Infine quelli dello scantinato devono accontentarsi di circa l’1%.” (F. Gesualdi, Sobrietà. Dallo spreco di pochi ai diritti per tutti, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 13).

Potremmo ridimensionare i nostri stili di vita, ma anche in quest’epoca di crisi sono ancora in pochi a prendere in considerazione quest’eventualità. Fioccano invece da più parti gli appelli per tenere alto il livello dei consumi per rilanciare l’economia. Agli abitanti dei piani superiori interessa poco che il conto lo paghino gli impoveriti del pianeta. In fondo per ristabilire gli equilibri giuridici basta un decreto che equipari l’immigrato clandestino al criminale, “[…] e se hai le mani sporche che importa, tienile chiuse e nessuno lo saprà.” (R. Vecchioni, Luci a San Siro, in Parabola, 1971).

Riflessioni sulla diversità

di Paola Lualdi

In realtà la diversità rientra nella normalità, poiché ognuno di noi è unico, pertanto diverso da chiunque altro. E questa è una fortuna. Che brutto sarebbe essere uno la fotocopia di un altro.

Però, dobbiamo tener conto che, ognuno di noi tende a dividere gli altri in categorie: quelli simili a noi, quelli meno simili a noi, i ricchi, i poveri, quelli che tifano per la nostra squadra, quelli che tifano per un’altra squadra, gli amici, i nemici, i simpatici, gli antipatici, ecc…

Questo di suddividere gli altri sulla base di differenze, vere o presunte, probabilmente è dettato da paure ancestrali che ci portiamo tutti dentro e che ha creato in noi meccanismi di auto difesa.

Prendere coscienza di questi meccanismi ci può aiutare ad accettare le gli altri con la loro diversità, addirittura la diversità è da considerare occasione e fonte di arricchimento reciproco.

Un’ulteriore riflessione è che nonostante la discriminazione negativa, che possiamo incontrare, per “la nostra diversità”, quello che importa è di non arrenderci e realizzare comunque se stessi.

Manuel Tartaglia

L’incontro del Gruppo donne Uildm, svoltosi durante le XLVI Manifestazioni nazionali dell’Associazione, ha posto al centro dell’attenzione dei partecipanti il tema della diversità. L’aspetto interessante dell’esperienza è rappresentato dal fatto che si è voluta stimolare una riflessione nel pubblico intervenuto, senza fornire indicazioni. Sono state semplicemente raccontate tre storie, senza spiegarle o interpretarle: a ognuno di noi spettatori la libertà di farci un’idea.

Un padre di famiglia non vedente, un sindacalista immigrato, un attore omosessuale. Tre spaccati di realtà sommerse, tre racconti di vite che i media in genere ignorano o decidono di ignorare. Ogni protagonista ha raccontato la propria storia, ognuno a suo modo, generando reazioni diverse tra i vari spettatori. Qualcuno si è commosso, qualcuno ha provato rabbia, qualcuno non è riuscito a spiccicare una parola.

L’incontro mi ha interessato e coinvolto, ma senza scandalizzarmi o generare in me reazioni forti. Non perché banale o mal organizzato, anzi, ma perché credo di aver raggiunto da molto tempo la conclusione che la normalità è un concetto relativo, indefinito e noioso, che la diversità non è qualcosa da evitare, né tantomeno uno svantaggio. Personalmente applico questa filosofia a molte delle mie scelte e a tanti aspetti della mia esistenza. Ho amici, per esempio, di qualsiasi orientamento religioso, sessuale e politico. Frequento persone più giovani e più anziane di me, più ricche e più povere. Condivido esperienze con gente dai giusti musicali o cinematografici simili ai miei, e allo stesso modo con altri dai gusti opposti, da cui magari imparo qualcosa di nuovo. Frequento posti dallo stile più vario, mi piace viaggiare e conoscere paesi diversi, assaggio piatti di cucine sconosciute, sono attratto tanto dalle cose che non conosco quanto da quelle a cui sono abituato.

Ed è in quest’ottica che mi è sembrata la cosa più naturale del mondo ascoltare queste storie. Proprio perché, come suggerisce il titolo dell’incontro, si tratta di “Storie di ordinaria diversità”.

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Accessibilità degli eventi dal vivo, Una legge per Live For All

Dopo decine di segnalazioni e articoli che raccontano le esperienze limitanti e spesso discriminatorie vissute da spettatori e professionisti dello spettacolo con disabilità, giovedì 3 luglio in Senato, si è svolta la conferenza stampa “Una

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